Con questa recensione di Designated Survivor 3, che torna su Netflix con una terza stagione di dieci episodi, ci addentriamo in un territorio simile a quello della quarta annata di Lucifer, anch'essa disponibile sulla piattaforma di streaming: in entrambi i casi si tratta di un prodotto di terzi (ABC nel caso del thriller presidenziale), cancellato dal network tradizionale e poi resuscitato dal servizio che aveva contribuito al successo internazionale. È un ritorno un po' diverso, tra la nuova fruizione del binge-watching (le prime due stagioni arrivavano su Netflix un episodio alla volta, dopo la messa in onda americana) e lo sfruttamento della maggiore libertà creativa concessa dallo streaming (le parolacce non mancano, e i momenti hot sono leggermente più spinti). Un ritorno che, nonostante l'assenza della possibilità di poter pianificare in risposta ad eventi reali, è più attuale ora di quanto non lo fosse due anni fa.
Tensione elettorale
La premessa originale di Designated Survivor si basava su un'idea reale ma senza un vero e proprio riscontro nei veri eventi politici americani degli ultimi decenni: la scelta, dal 1947 in poi, di un individuo, parte dell'amministrazione in corso e della linea di successione per la presidenza, come superstite designato qualora accadesse un fattaccio in occasione di eventi dove sono riunite più persone della medesima gerarchia. Scenario che il primo episodio dello show portò alle estreme conseguenze, facendo saltare in aria il Campidoglio durante il discorso sullo stato dell'Unione e facendo salire Tom Kirkman (Kiefer Sutherland) al rango supremo. Una strategia premeditata, frutto di una congiura che voleva l'inesperto Kirkman alla Casa Bianca per poter manipolare le decisioni più importanti a Washington e dintorni. Un'idea intrigante, con materiale a sufficienza per generare cliffhanger settimanali, ma non abbastanza per andare avanti oltre una stagione o due. Ed ecco che, al termine della seconda annata, si passò alla storyline successiva: una vera e propria amministrazione Kirkman, con il neo-presidente disposto a candidarsi per le elezioni dopo aver portato a termine l'incarico da successore provvisorio.
Designated Survivor: Jack Bauer for President!
Eccoci quindi nel bel mezzo di una campagna elettorale, con una certa ambizione di ricatturare l'idealismo di un programma storico e importantissimo come West Wing: all'epoca, la serie di Aaron Sorkin era l'incarnazione dell'ottimismo liberale in un'America quasi utopistica, raccontando quella che la critica definì "la miglior presidenza che non abbiamo mai avuto". Tom Kirkman non è Jed Bartlet, ma anche lui è spinto soprattutto da un desiderio di fare ciò che è giusto, a prescindere da qualsiasi lealtà politica. In tale ottica è difficile non vedere la terza stagione come una risposta esplicita a ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, con il protagonista che ribadisce di non essere apertamente legato a nessuno dei due partiti politici e un funzionario repubblicano che sottolinea l'importanza di dare la priorità agli interessi della nazione ("country before party", l'esatto contrario della filosofia del partito nella realtà). A questo aggiungiamo la questione spinosa della popolazione latinoamericana (con particolare attenzione a Puerto Rico), i diritti dei transgender e, nella parte più apertamente thriller, il problema sempre più grave del nazionalismo bianco.
Gli episodi diminuiscono, i (pochi) problemi no
Come già accaduto con Lucifer, il passaggio a Netflix comporta una riduzione del numero di episodi: da 21-22 siamo passati a 10, al fine di eliminare eventuali zavorre a livello narrativo e mantenere l'attenzione sulla storyline principale. Un'operazione riuscita solo in parte, perché se da un lato la componente di genere è più efficace senza quel bisogno di allungare il brodo che è tipico dei thriller da network, dall'altro rimangono tutte le sottotrame personali legate allo staff presidenziale, un altro lascito dell'opera sorkiniana che qui però non funziona del tutto, poiché nei loro momenti più deboli (vedi la gestione della new entry Mars Harper, interpretato da Anthony Edwards) queste deviazioni distraggono un po' troppo dalla componente politica, che è il vero motore drammatico dello show. Un motore che, al netto della scelta un po' strana di scrivere i titoli di tutti gli episodi a mo' di hashtag (ha senso nel primo capitolo, meno negli altri), si rispecchia piuttosto bene in appellativi come The System Is Broken, Make History e Truth or Consequences. Un monito ai personaggi all'interno della serie, ma anche a chi sta guardando. Con la differenza che dieci ore del presidente vero non reggerebbero una sessione di binge-watching. Neanche se lo interpretasse Sutherland, che qui invece è perfettamente a suo agio, anche perché ora, senza la censura da televisione generalista, può dire tutto quello che a Jack Bauer non fu mai concesso.
Conclusioni
Concludendo la nostra recensione di Designated Survivor 3, il passaggio da ABC a Netflix per questa terza stagione più compatta è stato senz'altro un vantaggio per quanto concerne l'elemento thriller, ridotto al minimo indispensabile in termini narrativi senza dover centellinare i dettagli per una ventina di episodi. Rimane la debolezza parziale delle storyline personali, con annessa però la possibilità di una svolta in positivo qualora il servizio di streaming decidesse di commissionare un quarto ciclo.
Perché ci piace
- La diminuzione del numero di episodi influisce positivamente sul ritmo della serie.
- Kiefer Sutherland rimane un protagonista carismatico.
- I rimandi all'attualità politica di oggi sono abbastanza potenti.
Cosa non va
- Alcune sottotrame girano a vuoto.