È stata la masterclass di chiusura della nona edizione del RomaFictionFest, domenica mattina: quella che ha permesso al pubblico di incontrare, al Cinema Adriano, il grande sceneggiatore gallese Andrew Davies, uno dei maestri della TV britannica. Settantanove anni di età, oltre trenta copioni per il piccolo schermo (e quasi altrettanti per spettacoli televisivi), dall'originale House of Cards del 1990 al cult Orgoglio e pregiudizio del 1995, fino ai recenti Bleak House e La piccola Dorrit, la firma di sceneggiature di film per il cinema come Il diario di Bridget Jones e Ritorno a Brideshead, due Emmy Award e cinque BAFTA TV Award, insieme a vari altri riconoscimenti.
Davies, che al RomaFictionFest è stato uno dei destinatari dell'Excellence Award di quest'anno, ha appena firmato lo script di uno dei progetti televisivi più importanti del 2016: Guerra e pace, adattamento in sei puntate per la BBC del capolavoro di Lev Tolstoj per la regia di Tom Harper, con un cast composto da Paul Dano, Lily James, James Norton, Jim Broadbent, Gillian Anderson, Stephen Rea e Greta Scacchi. Ecco di seguito il resoconto dell'incontro di Andrews Davies con il pubblico del RomaFictionFest.
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Dalla letteratura al (piccolo) schermo
Andrew Davies, come è nata la tua passione per la scrittura?
Mi sono sentito uno scrittore fin da quando ero bambino. Scrivevo racconti e poesie già quando frequentavo la scuola elementare, e gli insegnanti mi riempivano di complimenti e appendevano le mie poesie alle pareti dell'aula: era una sensazione fantastica. Poi, a undici o dodici anni, divenni una sorta di autore satirico: scrissi alcune poesie satiriche sui nostri insegnanti, e i ragazzi più grandi si complimentarono definendoli "bloody good". In seguito, a tredici anni, un insegnante mi insegnò cosa fossero le sceneggiature e gli storyboard, proponendomi di provare a raccontare una storia in questo modo. La trovai una modalità narrativa fantastica; molti anni dopo ho cominciato la mia carriera nella radio, per poi passare alla televisione al cinema.
Cosa ti ha colpito in particolare degli storyboard?
Quando leggo un libro, visualizzo sempre delle immagini: è una cosa che facevo ancora prima di diventare sceneggiatore. Del resto, i lettori si immaginano sempre il volto dei personaggi, e questo è uno dei motivi per i quali poi rimangono delusi da alcune trasposizioni cinematografiche.
Come nasce l'alchimia fra il lavoro di uno sceneggiatore e un romanzo da portare sullo schermo?
Un critico britannico ha scritto che quello che faccio con i romanzi è come l'opera di un ragno: li avvolgo, li divoro e li trasformo in qualcosa di mio. Era inteso come un commento negativo, invece mi è piaciuta moltissimo questa definizione, perché è proprio quello che faccio! Talvolta è giusto tradire la fonte letteraria: a volte ci si sente troppo spaventati e umili di fronte alle grandi opere letterarie. A me al contrario piace mostrare come anche i grandi classici possano essere sexy e divertenti: il potere delle grandi narrazioni del passato risiede spesso nel sesso o nell'umorismo, e mi piace estrarre questi elementi per le mie trasposizioni. D'altra parte, per riadattare un classico devi essere sfacciato e arrogante, e io lo sono.
House of Cards, fra passato e presente
Ti sei mai confrontato con gli autori di cui ti sei trovato ad adattare i libri?
Per fortuna, la maggior parte degli scrittori di cui adatto le opere sono morti! Con gli autori contemporanei in genere si è creato un bel dialogo, e hanno compreso il mio lavoro. Per House of Cards, invece, ci sono state molte discussioni con Michael Dobbs, che ha firmato il romanzo originale: lui nel libro parlava di se stesso, mentre io ho trasformato il suo romanzo in una satira sul Governo conservatore dell'epoca. Dobbs, che è un politico di destra, non ha gradito molto la mia trasposizione, ma chi se ne importa!
Ti aspettavi che, oltre vent'anni dopo il tuo House of Cards, la tua stessa opera diventasse un modello rappresentativo della moderna politica internazionale?
No, sono rimasto sorpreso ed entusiasta quando ho saputo che Netflix voleva "cannibalizzare" il mio serial, anche perché mi hanno pagato un sacco di soldi, quindi spero che la serie vada avanti per sempre: ad ogni nuova stagione divento più ricco, e questo senza fare assolutamente nulla! In qualche modo, mi sento anche un po' colpevole per il cinismo della mia descrizione della politica... mi piacerebbe che la politica fosse più idealista di quello che è. In Gran Bretagna, di recente abbiamo eletto un nuovo leader del Partito Laburista, Jeremy Corbyn, un socialista vecchia maniera che ha tentato di riportare in voga gli antichi ideali del socialismo, e molte persone hanno pensato che in questo modo non potesse avere successo; io, al contrario, spero che lui ce la possa fare e che le cose vadano meglio per il mio paese, ma ritengo che sia necessario anche l'appoggio della gente comune.
Provi una fascinazione particolare nei confronti delle narrazioni biografiche, come nel caso della serie Mr. Selfridge?
In realtà sono stato spinto a scrivere Mr. Selfridge: all'inizio pensavo che avesse a che fare solo con i negozi, e io detesto lo shopping. Invece sono rimasto molto affascinato dal personaggio, e la sua storia mi sembra agli antipodi rispetto a Downton Abbey: Downton Abbey riguarda la tradizione, il privilegio, l'aristocrazia, mentre Mr. Selfridge è una serie sulla creatività, sulla costruzione di un impero, sul Sogno Americano trapiantato in Inghilterra. Mi sembrano valori più forti e più sani.
Ti diverti a inserire anche delle note umoristiche nelle tue sceneggiature?
Quando andavo al cinema da ragazzino mi piacevano tantissimo le sequenze in cui un'attrice, in camerino, si cambia dietro il paravento: l'idea di sbirciare una bella donna mentre si cambia è molto divertente, e quindi ho inserito una sequenza del genere in Mr. Selfridge, dove il protagonista intravede la sottoveste di una donna e di conseguenza è incapace di concentrarsi su quello che sta dicendo. È un piacere scrivere scene del genere!
Dalla Russia con amore: Zivago e Guerra e pace
Come ti trovi a svolgere anche il ruolo di produttore, oltre che di scrittore?
Oggi sono nella posizione di poter fare anche il produttore esecutivo, oltre che lo sceneggiatore, anche se non sempre riesco a far prevalere le mie preferenze. Tempo fa, per A Very Peculiar Practice, avevo un produttore molto saggio, che si raccomandava sempre sull'importanza del casting e mi diceva che avrei dovuto assistere ai provini: "Se facciamo un casting sbagliato, tutti quanti devono esserne responsabili!". Ogni tanto però si commettono errori, anche se per fortuna nel mio caso sono stati piccoli errori. Per La piccola Dorrit, la miniserie tratta dal libro di Charles Dickens, ritenevo che Claire Foy fosse troppo piccola per il ruolo di Dorrit, invece poi si è rivelata meravigliosa.
Per Zivago, hai tenuto presente anche il film di David Lean o ti sei basato soltanto sul romanzo di Boris Pasternak?
La cosa più importante, per me, è la relazione con il romanzo di partenza, ma Zivago presentava un problema particolare: tutti conoscono Il dottor Zivago, ma leggendo il romanzo ci si rende conto che mancano tutte le grandi scene presenti nel film... Pasternak non le ha mai scritte! Per noi era importante non fare un plagio del film, e questo era molto difficile, perché le scene migliori erano solo nella pellicola e non nel libro. Nel romanzo, ad esempio, un'intera pagina è dedicata all'eccitazione di Lara prima della cena con Viktor Komarovski; nella pagina successiva, però, assistiamo alla frustrazione e al senso di colpa di Lara la mattina dopo l'incontro. E quindi ti chiedi: "Ma dov'è finito questo incontro?". Mi sembrava di aver saltato una pagina, e invece la scena non c'era affatto! Invece, mi ricordo che nel romanzo c'è la scena della separazione fra Jurij Zivago e Lara: per una volta, Pasternak ha fatto la cosa giusta!
In qualità di sceneggiatore, come ti trovi a collaborare con un regista e a dover trovare dei compromessi?
Zivago, per esempio, è stato uno di quei casi in cui il regista ha fatto davvero la differenza. Di solito scrivo delle sceneggiature 'blindate', che implicano una regia ben precisa, mentre il regista di Zivago, Giacomo Campiotti, voleva ricostruire da capo il film mettendo a volte da parte il copione. Ma io mi sono opposto e ho detto al produttore: "Così non è possibile, o lui o me!". Devo ammettere però che Giacomo ha avuto diverse idee brillanti, e alla fine abbiamo collaborato benissimo insieme. Lui ha avuto delle intuizioni formidabili: ad esempio, ha trovato un modo eccellente per mettere in scena il primo incontro fra Zivago e Lara o altri momenti clou della miniserie.
Perché invece ha scelto di adattare Lev Tolstoj, portando sul piccolo schermo Guerra e pace?
Non avevo mai letto Guerra e pace, e ciò che mi ha sorpreso alla lettura è quanto sia un romanzo fresco e moderno, e contenente una grande quantità di aspetti comici: nessuno nota mai la comicità di Guerra e pace, e ho pensato di sottolineare proprio questa vena brillante. Inoltre, chi sapeva che Anatole ed Hélène Kuragin, fratello e sorella, andavano a letto insieme? Tolstoj vi fa solo un accenno, io invece ho inserito questo incesto in una sequenza.
Infine, qual è il tuo segreto nella scrittura?
Semplicemente, fidarsi sempre della propria visione del mondo: non bisogna copiare gli altri, ma scrivere ciò che si vede e ciò che si crede del mondo.