Rapisci i figli dei potenti e avrai il mondo alla tua mercé. Come mai non ci aveva pensato nessuno prima dell'avvento della serie thriller Crisis, e perché Francis Gibson non ne approfitta per diventare l'uomo più ricco e temuto del pianeta? Il network NBC tenta con Crisis, trasmesso negli USA sei mesi dopo l'esordio su CBS di Hostages, lo stesso percorso: entrambi sono, infatti, drama-thriller dalla trama orizzontale preponderante dove il leader dei rapitori è disegnato per ispirare empatia nello spettatore e la relazione tra carnefici e vittime esibisce una corposa componente personale.
Le analogie finiscono qui; Crisis, che debutta il primo settembre su Fox con un'unica stagione di tredici episodi, è una parabola sulla forza della vendetta: l'ex analista della CIA Gibson è stato costretto con il ricatto ad accollarsi la responsabilità di un esperimento paragovernativo fallimentare e sfrutta le sue conoscenze del modus operandi di Servizi segreti, CIA ed FBI per denunciare pubblicamente i mandanti di una missione militare sanguinosa e catastrofica perpetrata sul suolo americano. Per riuscirvi restituisce, con mirabile contrappasso, la moneta a chi ha usato l'incolumità della figlia per piegarlo ricattando sistematicamente agenti, spie, direttori di multinazionali, il Presidente degli Stati Uniti e chiunque serva al suo scopo minacciando la sopravvivenza della rispettiva prole.
Tutto per i figli
Crisis si sviluppa intorno al rapimento degli studenti del liceo Ballard, frequentato dalla progenie dei potenti: gli unici a salvarsi sono Finley - un ex poliziotto al suo primo giorno nei Servizi segreti - e il riccioluto studente genietto Anton, mentre il resto della comitiva e l'insospettabile Gibson vengono condotti nel luogo di detenzione dove gli adolescenti resteranno in attesa che i rispettivi genitori soddisfino le richieste dei rapitori. L'indistruttibile (le pallottole lo scalfiscono appena) Finley fa coppia con Dunn, esile e introversa Giovanna d'Arco dell'FBI coinvolta personalmente - sua nipote, la figlia dell'avido CEO di una multinazionale Meg Fitch, è tra i rapiti - e i due sembrano gli unici capaci di portare avanti indagini produttive a fronte di un esercito di agenti inconcludenti al servizio del Presidente. La narrazione si ripartisce tra gli sforzi dei liceali rapiti per sopravvivere e sfuggire ai propri aguzzini - i quali "si sentono a loro agio con l'esercizio della violenza" e non esitano a dimostrarlo -, quelli delle forze dell'ordine per salvarli, quelli di Gibson per portare a termine i suoi piani e quelli dei genitori dei rapiti per ottenere la restituzione dei figli. La trama di Crisis sembra complicata ma i suoi sono i contenuti di una serie piuttosto basica, dove chiunque è disposto a tutto e lo stallo si protrae prevedibilmente fino al momento in cui scoppia lo scandalo che rivela il coinvolgimento di Meg e del Direttore della CIA Widener nella strage (le cui cause pescano nello stagno del trito e ritrito).
Il limite dell'improbabile
Rand Ravich, creatore della serie dal curriculum imperscrutabile (ha sceneggiato il mediocreLa moglie dell'astronauta ma è anche l'autore di una bella serie poliziesca sottovalutata come Life), punta sull'empatia tra spettatore e personaggi principali - Finley, Dunn e addirittura Gibson - e fa cilecca perché i personaggi sono troppo banali: Dunn è frustrata dalla maternità segreta e dal rapporto tempestoso con la sorella; troppo egoisti - Finley mal sopporta che la prospettiva di una crisi politica mondiale infici la realizzazione dei suoi sogni di carriera nei servizi segreti; troppo improbabili - per riottenere la stima della figlia Gibson la rapisce, la picchia e le massacra mezza classe.
Il cast si sforza quanto può per conferire spessore e plausibilità a questi personaggi - nel caso di Mulroney ci è voluto poco a fare meglio dello stolido Dylan McDermott di Hostages - e a una trama incoerente nella quale il figlio di una spia cinese e di un anonimo attaché frequenta la superclasse elitaria del primogenito del Presidente (il quale sfoggia la mira di un cecchino degli SWAT), l'imputato di una strage può beatamente lasciare lo Stato per andare a pescare in attesa del processo, e tutto l'impianto del rapimento e ri(s)catto desta risibilità.
Una crisi di breve durata
Il pregio maggiore della serie è rappresentato dalla prova attoriale di Gillian Anderson nei panni firmati della melliflua e corrotta Meg: la Anderson è algida in ogni ruolo, eppure nella parte della manager sotto ricatto regala una delle sue performance migliori. Il suo personaggio senza remore ma con un esiziale punto debole, sempiternamente glaciale e insofferente ma fragile quando è coinvolta la famiglia, malfattrice costretta a scontare le proprie malefatte è forse l'unico motivo per sorbirsi tredici episodi di Crisis. Assieme al Gibson di Mulroney (il villain vittima di soprusi, esasperato ma freddo pianificatore) e al Widener di Mark Valley (il cattivo tout court) la Meg della Anderson costituisce l'incarnazione una e trina del Bad Guy, quasi uno studio delle eterogenee declinazioni dell'antagonista. La sceneggiatura relega la coppia di protagonisti a meri pupazzi; le sottotrame riservate ai drammi adolescenziali dei rapiti rivolte al pubblico più giovane (che ha scansato accuratamente la serie) rallentano il ritmo della storia che prende la rincorsa solo nelle ultime puntate.
Da menzionare la deliziosa citazione dal pilot di X-Files (la croce rossa sull'asfalto) nel primo episodio della serie diretto dal Phillip Noyce (del teso Ore 10: calma piatta), il quale, nonostante fosse anche produttore esecutivo di Crisis, non ha contribuito a iniettarvi un po' di adrenalina. Peccato per il bistrattato Lance Gross, interprete del bidimensionale Finley: speriamo che il prossimo ruolo gli conceda un'opportunità concreta per dimostrare l'auspicabile talento.
Movieplayer.it
2.5/5