Cineserie d'esportazione
"Il mio nome è Ni Ke, ma gli amici mi chiamano Coco, come la famosa stilista francese Coco Chanel. Il mio scrittore preferito è Henry Miller e il mio libro preferito è L'insostenibile leggerezza dell'essere". La protagonista di Shanghai Baby si presenta al pubblico citando un bignami di cultura occidentale, ormai cristallizzato nell'immaginario collettivo tanto da divenire quasi uno stereotipo culturale. E così è anche il film Shanghai Baby, che ritrae la scintillante metropoli asiatica esattamente come se la immaginerebbero i turisti occidentali: patinata e illuminata da onnipresenti luci al neon. Occidente e Oriente si fondono dunque in Shanghai Baby, ma soltanto nell'universo estetizzante e kitsch della cultura consumistica e pubblicitaria.
Punto di partenza di quest'osmosi sono le pagine dell'omonimo romanzo di Zhou Wei Hui, bestseller internazionale che per i contenuti scabrosi (ma anche per l'emancipazione con cui sono ritratte le giovani generazioni cinesi) è stato bandito dal Governo di Pechino. Al centro del libro e del film ci sono le confessioni di Ni Ke/Coco, una scrittrice bohemien che intreccia vita e arte nella scintillante metropoli cinese, dividendo il suo cuore tra Tian Tian, pittore esistenzialista e impotente, e Mark, passionale uomo d'affari berlinese. Coco oscilla tra l'amore platonico e l'impero dei sensi e finisce per identificarsi sempre di più con l'eroina del suo romanzo, precipitando in un baratro da cui fatica a uscire.
Un intreccio che si presterebbe anche a un'interpretazione politica e sociale: la protagonista si scontra sia con lo spiritualismo di matrice orientale, sia con il pragmatismo occidentale, tentando di elaborare una sua personale "via di mezzo" in chiave femminista. Peccato che temi quali la globalizzazione e la mutazione della metropoli rimangano relegati sullo sfondo, mentre il film si esaurisce nella messa in scena di un classico triangolo sentimentale virato da cliché scapigliati e decadenti (come la fusione tra vita e opera d'arte, l'oscillazione tra purezza e carnalità, la simbiosi con il paesaggio urbano).
Tutto è ovattato, saturo, luccicante nel film del tedesco Berengar Pfahl. Il regista, complice l'antinaturalezza della fotografia digitale, si crogiola in un mondo fatto di illuminazioni artificiali e superfici riflettenti e rifrangenti: l'iridescenza dello skyline di Shanghai (in cui svettano fallici torroni), la stroboscopia delle discoteche e dei locali notturni, un ristorante con cascate artificiali sullo sfondo. La precisione nel dettaglio scenografico e nella preziosità dei costumi eccede fino a tramutarsi in maniera, e si ha come l'impressione di ammirare delle laccate cineserie. Berengar Pfahl insegue il raffinato estetismo di Wong Kar-Wai e di Hou Hsiao Hsien, senza però riuscire a realizzare niente di più che un pallido calco. Le immagini rimangono vuote, prive di autentica passionalità, e la ridondante e didascalica voce di commento della protagonista non aiuta nell'immedesimazione.Ma è evidente come Shanghai Baby sia soprattutto un film di Bai Ling, attrice dal fascino conturbante e inquieto che ha
saputo conquistare anche molti spettatori occidentali (i quali forse la ricordano soprattutto per le sue "sfilate" sul red carpet della Berlinale 2005 in qualità di giurata). L'attrice, che qui è anche produttrice esecutiva, sembra identificarsi in maniera indissolubile con l'eroina del romanzo e dona letteralmente tutta se stessa allo spettatore. In effetti, Shanghai Baby può essere anche visto come la storia di un corpo (e della sua ricerca di indipendenza); ma in particolare come una vera e propria celebrazione del corpo di Bai Ling, al punto che ogni singola inquadratura è messa a servizio delle sensuali sinuosità della diva. Purtroppo non basta l'imponente presenza scenica dell'attrice a salvare il film. Agli spettatori occidentali che volessero approfondire intrecci melodrammatici illuminati dai neon di una metropoli orientale si consiglia piuttosto Millennium Mambo di Hou Hsiao Hsien.