Si fa presto a parlare di crisi del cinema, se solo Roma rischia di finire in un vortice di desertificazione artistica, sociale e culturale. Il monito, tra l'altro, è arrivato dallo stesso Presidente Mattarella, in occasione dei David di Donatello, avvertendo che "Non ci si può rassegnare a logiche commerciali e di mercato che non tengono in adeguata considerazione il cinema, inteso anche come valore sociale". A gennaio, invece, è stato Carlo Verdone a mettere in guardia rispetto ad una legge - la Legge Regionale 171, che verrà discussa in Consiglio l'11 giugno - che, di fatto, potrebbe permettere di trasformare le (molte) sale chiuse in spazi commerciali.

"Di questo passo, nel 2040 non ci saranno più sale aperte. È ovvio. Si chiama distruzione totale della cultura, non solo dell'intrattenimento", spiegava Verdone a La Repubblica. Un tema, questo, decisamente "impellente e nevralgico", come spiega Valerio Carocci, presidente della Fondazione Piccolo America che gestisce il Cinema Troisi. Un mantra, il suo, che ripete prima di ogni proiezione del Cinema in Piazza, davanti ad una sempre gremita platea.
Se anche Scorsese non va più al cinema

Sul punto in questione, abbiamo ascoltato proprio Valerio Carocci, affiancato da Luca La Barbera, responsabile comunicazione del Cinema Troisi, qualche minuto prima dell'inaugurazione del Cinema in Piazza a Monte Ciocci, con la proiezione di Palazzina Laf. Con loro, siamo partiti però da una notizia che ha acceso il dibattito, ovvero: Martin Scorsese ha dichiarato di non andare più in sala perché il pubblico è ormai troppo maleducato. Non il migliore degli spot, se arriva un regista di tale calibro. "Il lavoro fatto in questi anni è stato proprio quello di educare e abituare la collettività ad abitare un luogo. Facciamo convivere un'aula studio con una sala cinematografica, e siamo per il terzo anno di seguito la sala sala di prima visione con il maggior numero di spettatori. Ovviamente il Modernissimo ha fatto un ottimo risultato, ma è una sala di retrospettive, e quindi non ha i vincoli dei distributori nell'alternare i film", spiega Carocci.
E prosegue, "Facciamo questo lavoro da oltre 11 anni. Penso al Cinema in Piazza: alla fine delle proiezioni le persone si alzano e portano via i rifiuti. Rispettano il luogo, che può essere una sala o un parco. Certo, Scorsese può aver ragione, essendo stanco di vivere in una società che non rispetta gli altri. Tutto però parte da te, e da come operi sulla cultura e sull'arte. Sta tutto nell'essere consapevoli e sensibili. Un luogo collettivo nasce e finisce dove inizia l'altro, ed è in questa distanza che ognuno di noi deve saper vivere. In fondo sono i giovani a tenere in vita le sale". Per Luca La Barbera, però, il brusio in sala è sintomo di un pubblico che cambia: "Se le persone in sala si distraggono è anche dettato dal fatto che ora più giovani vanno al cinema. Ed è appurato che la soglia dell'attenzione dei ragazzi è più bassa. Quindi forse un po' più di rumore in sala vuol dire che è frequentata da un pubblico nuovo. I giovani cercano tantissimi spazi, vogliono vivere i luoghi, sentirli come propri. Però c'è, secondo me, anche un'assenza di luoghi che possono offrire tutto ciò".

Valerio Carocci, poi, si sofferma proprio sul dato focale rispetto alle fasce d'età che frequentano il Troisi: "Il 70% sono under 30, di questo 70%, il 60% sono under 25. Questo è merito soprattutto della progettazione del luogo, cioè studiare la sala cinematografica come luogo terzo alla casa e al lavoro, in cui stare insieme. La sala è solo una parte della nostra struttura. Chiaro che se sono solo i giovani a frequentare le sale bisogna interrogarsi sui motivi. Nelle nostre piazze cambia il pubblico, e in sala è abbastanza eterogeneo. Al nostro fianco in un binomio particolare c'è il Sacher, che ribalta questo rapporto, essendo frequentato da un pubblico più anziano".
La crisi dei cinema e degli spazi sociali
Ed è proprio su questo assunto che il nostro discorso su sposta sulla Legge 171, che Carocci spiega così "Questa legge prevede la possibilità di riconvertire tutte le sale senza vincoli di destinazione d'uso, e quindi al 100% e di demolire, qualora siano chiuse da sette anni, e di poter chiudere quelle oggi aperte, qualora dovessero chiudere in futuro per dieci anni consecutivi. Si crea una distorsione economico-urbanistica, perché a regolare il rapporto di cubature, e quindi il piacere della città, è il piano regolatore. Il piano regolatore sancisce degli equilibri tra le diverse destinazioni di uso delle cubature, dagli ospedali, alle scuole, agli spazi commerciali, abitativi o sportivi. È studiato anche in base ai trasporti e tante altre questioni. E Roma ha 50 cubature abbandonate".

Dunque, una sorta di crisi trasversale. "Le sale sono in crisi e hanno chiuso. Ma il problema è che si sta concretizzando il motivo per cui quelle 50 cubature sono rimaste chiuse tutti questi gli anni: non è l'assenza di proposte culturali per riaprirle, ma è la volontà di attendere la riconversione per poter guadagnare venti volte quello che si sarebbe guadagnato in dieci anni di affitto da uno spazio culturale. Il problema non è insito solo nell'industria del cinema, e bisogna affrontare il futuro. Ma ai tavoli ci sono esclusivamente le associazioni di categoria che, loro malgrado, sono molto spesso anche i proprietari delle stesse cubature, e a volte sono responsabili delle chiusure delle sale stesse perché non le hanno ripensate a dovere. È una mancanza politica enorme rispetto alla città, perché la politica ha l'onore e l'onore di scegliere, di progettare la città del futuro, la città che vogliamo, la città il mondo nuovo dell'immaginario collettivo. E lo deve fare a partire in una città come Roma e come tante altre dalle cubature abbandonate".
Andare oltre le logiche di mercato
Per Carocci è allora assurdo cambiare la destinazione finale delle strutture: "Consentire il cambio di destinazione d'uso senza dire quali sono le necessità nei territori significa abdicare al ruolo politico, e significa far decidere al privato la possibilità di scegliere qual è la città di domani. E la città di domani ha sicuramente bisogno di altre sale cinematografiche. Tutti ci auguriamo che quante più di quelle sale possano aprire, ma la città ha bisogno anche di asili nido, di scuole di formazione, di luoghi di socialità, d'incontro che vanno dalle biblioteche alle aula e studio fino all'intrattenimento notturno".
La soluzione? Partire dai servizi urbani assenti, e andare oltre le logiche di mercato. "Bisognerebbe fare un censimento dei servizi assenti nei territori, calcolando il valore attuale delle sale, capire quali progetti si possono mettere in campo affinché i privati che le hanno acquistate o che le possiedono continuino a guadagnare il giusto reddito rispetto a quella destinazione d'uso. Altrimenti è ovvio che cade ogni progetto che andiamo a presentare, perché con certe percentuali legate agli alberghi o al commercio. Diverse Giunte hanno lasciato intendere che se quelle sale fossero rimaste sfitte prima o poi sarebbe arrivata la riconversione. Come dire, tengo chiuso e sfitto, tanto tra dieci anni ci guadagno venti volte di più. La Legge in discussione è un invito a chiuderle, senza ragionare su come certe cubature possano risorgere".

L'esempio, tanto per cambiare, arriva dalla Francia. "Il modello che noi abbiamo studiato arriva da Parigi. Partiamo dai tiers-lieux che sono degli spazi ibridi. Sono stati teorizzati da Roy Oldenburg, un sociologo, e sono dei luoghi alternativi alla casa e al lavoro, che però riescono a rimanere a reddito perché c'è una politica di investimento nel pubblico tramite uffici di consulenza dei Dipartimenti Cultura, snellendo la burocrazia. Consideriamo anche una politica volta a distendere la tensione che poi si crea tra il tessuto residenziale e l'intrattenimento notturno. Parigi ha ristrutturato il divertimento attraverso regole severe, diventando la seconda Capitale Europea in questo campo. Roma sta provando a mettere attorno al cittadino i servizi essenziali, e tra questi sicuramente ci sono tante cubature abbandonate: dotare i quartieri di spazi aperti è una soluzione sensata".
Il ruolo della politica
Tuttavia, come sempre capita, tutto parte della politica. Secondo Valerio Carocci, "La politica dovrebbe guardare all'interesse collettivo e non ai privati. Questa Legge guarda all'interesse dei proprietari di queste cubature, usano la scusa del degrado come leva per ottenere la riconversione, quando invece l'unica mano che può salvarle sono quelle della politica. Nell'ultimo anno, forti della fattibilità economica del piano economico del Troisi abbiamo contattato numerosi proprietari di sale. Abbiamo fatto offerte di affitto e offerte d'acquisto, abbiamo cercato di presentare progetti anche a breve e lungo termine. La risposta? Non ci danno le cubature perché aspettano di capire quanto possano valere".
La riconversione, quindi, sembra essere l'unica strada per le strutture chiuse, o in netta perdita, in quanto non c'è un equità di valore "Se passerà la legge è evidente che anche le sale attive potrebbero aspettare vent'anni prima che arrivi un'altra amministrazione e faccia un'altra legge. Quindi lo stralcio della seconda parte della norma non è risolutivo. In generale consentire oggi la riconversione delle sale abbandonate significa aprire le porte alla riconversione di tutti gli spazi culturali e sociali della città. Ed è questo quello che preoccupa di più: sopravviveranno solo le 4 o 6 sale pubbliche che abbiamo a Roma? La maggior parte delle sale attive sono di privati. Se i privati capiscono che quella è la strada per guadagnare di più, ci salveranno solo pochi mecenati". Luca La Barbera fa un esempio pratico: "Se un cinema adesso a Roma lo trovi in vendita a 3 milioni e non può essere riconvertito, a quanto può essere venduto, sapendo che può diventare un albergo? 10 milioni, 15 milioni, 20 milioni?".
Una narrazione da cambiare
Chiediamo a Carocci, dovrebbe anche cambiare la narrazione attorno al cinema, se poi la politica, come sappiamo, ragiona assorbendo solo una certa emotività popolare. "L'industria del cinema rischia di assumersi una responsabilità enorme che potrebbe rivelarsi un boomerang rispetto a quella che è l'affezione dei cittadini verso il cinema. Le città di domani non possono essere affidate alle associazioni di categoria, bensì ad urbanisti, a sociologi. Spetta a chi ha studiato come stare insieme all'interno di una città e quali sono i servizi di cui abbiamo bisogno. Se è l'industria del cinema a promuovere la riconversione di conseguenza a quel punto si sta abbandonando il pubblico. Le persone non se ne rendono del tutto conto, ma se domani dicessero che chiuderanno le farmacie? Il cinema, come ogni spazio culturale e sociale, è vitale per il territorio".
In chiusura, Valerio Carocci sottolinea il capillare lavoro del Troisi rispetto all'aggregazione generazionale: "Il sistema virtuoso del Troisi parte dal concetto di luogo. I ragazzi che lavorano con noi sono ragazzi che hanno frequentato la sala cinematografica o la sala studio, e quindi quel posto si rianima. Non credo che l'esperienza creata possa finire perché c'è un rinnovamento. E lo vediamo anche nelle nostre iniziative, nei nostri palchi, nei progetti che ci attraversano, perché le persone si sono sentite protagoniste di una certa progettualità".