Che cos'è un uomo?
Il titolo del nuovo film-documento del regista cinese Wang Bing - evento a sorpresa del sessantasettesimo Festival di Venezia - The Ditch, fa riferimento al fossato in cui sono giustiziati i prigionieri di un campo di lavoro a Jiabiangou, situato nel mezzo del deserto del Gobi, dove negli anni Sessanta il regime cinese confinava i dissidenti politici. Ma il titolo dell'opera - tratta dal romanzo di Yang Xianhui Goodbye, Jiabiangou - descrive in qualche modo anche il percorso dello spettatore, che finisce per sprofondare dentro il baratro in cui sono piombati i detenuti, precipitando assieme a loro in una situazione estrema, dove finiscono per perdersi i connotati della stessa condizione umana. I prigionieri vivono in cunicoli sotterranei come dei topi. Muoiono come cani cui non è concessa nemmeno la dignità di una lapide: le salme, avvolte nelle loro sudice coperte, sono semplicemente gettate in mezzo alla nuda sabbia del deserto. L'esistenza è ridotta alle funzioni elementari, ricondotta ai bisogni essenziali della mera sopravvivenza. L'unico imperativo che domina costantemente i pensieri di tutti i deportati e quello di trovare cibo. Ogni freno inibitorio e ogni tabù sociale viene bandito, soggiogato dagli istinti più lancinanti del corpo, fino a spingersi al limite estremo del cannibalismo e della necrofagia.
The Ditch costringe lo spettatore a interrogarsi su quale possa essere il fondamento dell'identità di un essere umano in condizioni così estreme, dove si finisce addirittura per non essere neppure padroni del proprio corpo, sia da vivi che da morti. Una delle sequenze più strazianti del film è costituta dall'arrivo al campo della moglie di un prigioniero defunto. Alla donna viene negato persino diritto di avere accesso alla cadavere del proprio marito, sottoposto a tremende sevizie; ma lei non avrà pace finché non riuscirà a ristabilire almeno un ultimo contatto fisico con ciò che resta dell'uomo. Nonostante The Ditch rappresenti l'esordio del documentarista cinese Wang Bing al cinema di finzione, il regista mantiene il medesimo approccio di fedele ancoraggio al reale, impegnandosi a un'attenta ricostruzione delle vicende storiche che hanno richiesto una fase di studio di diversi anni. L'opera - realizzata in clandestinità grazie al sostegno di diverse produzioni europee - possiede il rigore morale della migliore letteratura di prigionia, da Se questo è un uomo a I racconti di Kolyma, dove partendo da una ferrea condanna politica si giunge a delineare un desolante ritratto, quasi metafisico, della condizione umana. Stretto tra i campi lunghi e assolati delle valli desertiche e gli oscuri e angusti spazzi dei cunicoli-dormitorio, Wang Bing si accosta alla materia con un rispetto quasi sacrale, reprimendo qualunque vezzo stilistico o qualsiasi edulcorazione retorica. La macchina da presa è immobile, quasi assorta di fronte alla contemplazione compassionevole nei confronti della vita umana negata.