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Arriva all'indomani delle primarie del Pd l'esordio alla regia nel lungometraggio di finzione dell'ex-sindaco di Roma, che abbiamo incontrato per questa intervista a Walter Veltroni, primo segretario di quel partito. Ma è solo un caso che C'è tempo, road movie citazionista a bordo di una Volkswagen cabrio, sbarchi in sala proprio in questi giorni. Certo l'entusiasmo per i risultati e i numeri dell'affluenza al voto per scegliere il nuovo segretario del Pd, è palpabile: "È un segnale di luce. In questo momento ho paura del buio e sono ossessionato dalla perdita di speranza, è come se attorno a noi il futuro avesse perso la capacità di realizzarsi. Quando le persone votano è un fatto positivo e quando in un paese non c'è solo il prevalere di una maggioranza, ma anche la forza di un'opposizione allora la democrazia è più forte. Che si sia di destra o di sinistra bisogna salutare la partecipazione al voto di centinaia di migliaia di persone come un fatto positivo", ci dice durante la presentazione del film alla stampa.
E a chi gli chiede se tornerà, lui che all'impegno civile non si è sottratto, risponde di non essere mai andato via: "Chi smette di fare politica avendo ruoli e responsabilità, non smette il suo impegno politico. La politica è impegno civile e la si può fare in tanti modi: le persone che sono andate a votare ieri o la gente che ha manifestato in piazza a Milano sabato, hanno fatto la storia politica di questo paese. Non smetterò di avere passione civile e non lo farò finché non chiuderò gli occhi".
Tra favola e road movie
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Al centro del film, di cui abbiamo parlato nella nostra recensione di C'è tempo, c'è un viaggio alla scoperta dell'altro, alla riconquista di un tempo della lentezza. A bordo della Volkswagen che attraverserà la provincia italiana due personaggi completamente diversi tra loro: Stefano (Stefano Fresi), quarantenne precario, burbero e scanzonato, che di lavoro fa l'osservatore di arcobaleni, e Giovanni, (Giovanni Fuoco) il fratello che non sapeva di avere, un tredicenne orfano, appassionato di Truffaut, che dimostra molti più anni di quanti ne abbia effettivamente.
"Volevo che i due protagonisti caratterialmente e socialmente diversi si incontrassero, fossero costretti a convivere e cominciassero un viaggio, che al contrario di tutti gli altri, tende a rallentare", racconta Veltroni.
Sì, perché uno dei temi del film è "lo scambio, la meraviglia dell'incontro con ciò che è diverso da sé: in fondo l'arcobaleno è incontro di diversità, tanti colori diversi che poi si compongono in uno solo. Dovevamo trasmettere un'idea calda, solare e carica di speranza, volevo che entrasse luce da tutte parti. Nel periodo buio in cui viviamo ne abbiamo tutti bisogno, e per me la luce arriva dall'incontro e dall'accettazione dell'altro".
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Gli omaggi al cinema
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Veltroni lo definisce un piccolo film, dove "la macchina su cui viaggiano i due protagonisti è di Stefano; quando gli ho raccontato la storia del film e gli ho parlato di una Volkswagen cabrio mi ha fatto vedere la foto dell'auto che gli aveva regalato la moglie". Ma è soprattutto un "atto di gratitudine" al cinema del passato: sono almeno cinquanta le citazioni o "ringraziamenti", come al regista piace definirli, che corrono in una sotto trama quasi parallela a quella principale: "La padella sulla quale Silvia tira l'uovo all'inizio è quella de La grande guerra, l'elmo su cui Stefano batte la mano nella Corte degli Angeli è quello di Bracalone alle crociate, la notaia Lolotta viene da un nome di Zavattini in Miracolo a Milano, mentre il cognome Cortona è quello di Bruno ne Il sorpasso, i nomi dei relatori della conferenza sull'arcobaleno sono di personaggi del cinema italiano, la pistola rossa a pallini bianchi è quella di Dilinger è morto, ma ci sono anche Ettore Scola, la Corte degli Angeli di Novecento e l'albergo di Parma dove fu girato Prima della rivoluzione", spiega. E c'è ovviamente l'Antoine Doinel de I 400 colpi di Truffaut, che il giovanissimo Giovanni è intento a guardare tra gli agi della sua, ancora per poco, modernissima casa.
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Spazio anche alle citazioni letterarie, come succede nella scena del Supersantos che Giovanni calcia a San Casciano e che poi atterrerà a Parigi: _ "È la citazione_ - rivela - di una poesia di Dylan Thomas. Riflette l'idea di ricomposizione della vita, perché la traiettoria del pallone corrisponde a quella di Giovanni, che alla fine ritrova se stesso". E non poteva essere diversamente in una pellicola citazionista sin dal titolo, che prende in prestito quello "di una delle canzoni più belle della musica italiana: "C'è tempo" di Ivano Fossati, un brano struggente ed epico, perfettamente attinente al senso del film: il recupero del tempo, la riconquista della bellezza del viaggio sottratta all'incubo dell'arrivo".
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Un film dai buoni sentimenti
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Un film buonista? Sì, perché "in fondo ci si porta dietro quello che si è, se dovessi fare un film splatter non sarei credibile" e nella misura in cui "i buoni sentimenti come l'ascolto, il riconoscimento dell'altro, l'accoglienza, sono rivoluzionari; in un momento in cui prevale l'idea dell'odio, dei muri, dell'insulto e della negazione della legittimità dell'esistenza altrui, ciò che prima poteva apparire rassicurante è diventato addirittura rivoluzionario".
C'è tempo eredita inoltre dai precedenti documentari di Veltroni l'attenzione per lo sguardo dei bambini: qui è quello di Giovanni, che l'infanzia l'ha perduta e cercherà di riconquistarla, ma è anche lo sguardo di Stefano, un bambinone che sogna arcobaleni. Smettere di essere bambini? Mai, "mi fanno paura le persone che lo fanno e smettono di riconoscere la quota di adolescenza che c'è in ognuno di noi. Il più grande errore di un adulto è pensare che i bambini siano fragili, che siano creta da modellare quando invece hanno pensieri, risposte, caratteri, domande, punti di vista".