"Dio è morto, Marx pure e anche io non mi sento molto bene". La battuta di Eugene Ionesco torna spesso utile negli ultimi tempi, soprattutto per fotografare l'attuale situazione negli Stati Uniti. In una svolta clamorosa per la TV americana, infatti, due dei più grandi talk show notturni sono stati rimossi dal palinsesto a poche settimane di distanza l'uno dall'altro. Dopo Stephen Colbert, ora ABC ha sospeso a tempo indeterminato il Jimmy Kimmel Live! per un commento sulla vicenda Charlie Kirk.
Jimmy Fallon rimane quindi l'unico grande conduttore di questo format, ma per quanto tempo ancora? La loro uscita di scena ha acceso un dibattito rovente ed è inevitabile chiedersi: quanto spazio rimane, oggi, per la libertà d'espressione in TV nella "più grande democrazia del mondo"?
Jimmy Kimmel, la sospensione "a tempo indeterminato" e l'ombra lunga dell'interferenza

Oggi è toccato a Jimmy Kimmel. Dopo un monologo in cui ha parlato dell'omicidio dell'attivista conservatore Charlie Kirk e della politicizzazione del lutto, ABC ha annunciato che Jimmy Kimmel Live! sarà sospeso a tempo indeterminato. Prima ancora, i colossi delle affiliate avevano scelto di non mandare in onda lo show e dal fronte regolatorio erano arrivati inviti espliciti a "intervenire".

Il risultato è una scelta che pesa e molto: uno dei talk di punta della tv generalista messo in stand-by nel mezzo di un ciclone politico-mediatico. La questione non si può liquidare con una scrollata di spalle dal momento che in ballo c'è quel Primo Emendamento così spesso impugnato dagli americani in dibattiti di ogni genere. Il primo, quindi quello fondante della Costituzione a stelle e strisce, che protegge il diritto alla libertà di religione, di parola, di stampa.
Tutto ciò cozza con le reazioni della Casa Bianca e di Donald Trump, che dovrebbero essere custodi di quella Costituzione, che hanno invece salutato la decisione con toni trionfali: messaggi pubblici in cui si festeggia il risultato e si esorta a "fare lo stesso" con gli altri conduttori critici.
Dall'altro lato del campo, sono tutti sconvolti. Associazioni per i diritti civili, sceneggiatori, attori, musicisti e presentatori hanno parlato apertamente di censura, o quantomeno di pressione indebita. A prescindere dalle simpatie, comunque, resta la sostanza: è legittimo che una rete valuti cosa mandare in onda, è pericoloso quando quella valutazione si intreccia con minacce (o plausibili aspettative) di ritorsioni istituzionali.
Agli italiani suona familiare: è la dinamica dell'"editto bulgaro" di Silvio Berlusconi. Era il 2002 e dal palco di Sofia l'allora capo del governo indicò in diretta i volti "scomodi" (Enzo Biagi, Daniele Luttazzi e Michele Santoro). La TV pubblica, poco dopo, epurò il piccolo schermo dalla loro presenza.
Il caso Colbert: quando l'economia diventa politica (o viceversa)

Prima era toccato al re dei Late Night. CBS ha annunciato in estate la fine di The Late Show con Stephen Colbert, una scelta, dicono, "puramente finanziaria" in un mercato - quello del Late Night - in contrazione. La versione ufficiale è cristallina, il contesto meno. O meglio, lo è fin troppo. Perché Colbert è stato il leader assoluto negli ascolti per 9 stagioni consecutive e perché l'annuncio è arrivato a ridosso di polemiche che hanno visto l'anchorman criticare la casa madre per un accordo legale con Donald Trump.
La rete, ovviamente, ha negato qualunque collegamento, ma le tempistiche fanno pensare a un segnale politico poco fraintendibile. O quantomeno a un'azienda che ha preferito evitare "rumori". È qui che l'economia e la politica si toccano, quando il costo di un programma non è più (solo) una questione di budget, ma di quale spazio una democrazia concede alle voci che pungolano il potere.
La reazione della comunità tv è stata eloquente. Agli Emmy appena passati il teatro si è alzato in piedi compatto per Colbert. Nel suo discorso, il conduttore ha ringraziato la rete per il privilegio di aver fatto parte della tradizione del late night, ma ha anche lanciato una piccola stoccata: "A volte ti rendi davvero conto di quanto ami qualcosa solo quando hai la sensazione di poterla perdere". Per poi aggiungere: "Siate forti, siate coraggiosi e se l'ascensore cerca di portarvi giù, impazzite e premete il pulsante di un piano più alto!".
Economia del late night: un modello in crisi, non un alibi
In queste ore serpeggia un'obiezione: per alcuni non si tratterebbe di politica, ma di pura e semplice economia. Vero (forse), ma solo a metà. Il late night tradizionale è un format costoso per la TV e il mercato vede sempre di più lo share scivolare verso streaming, social, podcast. Lo vediamo anche in Italia, ma negli USA è ancora più evidente. In questo contesto i break pubblicitari rendono meno.
Ridurre l'offerta, quindi, sarebbe una strategia legittima. Ma - ed è un "ma" importante - la linea di frattura non è economica in sé, si tratta piuttosto del suo uso come scudo per decisioni dettate anche da calcoli "esterni" alla tv. In primis, il clima politico.
L'importanza della satira e il corto circuito della cancel culture

Da tre decenni almeno i late show americani sono una valvola di sfogo e un luogo d'informazione che si basa, solitamente, su tre pilastri: i monologhi che riassumono la giornata con sarcasmo, le rubriche che smontano bufale, alcune interviste che hanno la capacità di spostare il focus delle conversazioni pubbliche.
Hanno fatto da palestra per generazioni di spettatori, per questo colpisce che a finire nel mirino siano proprio gli spazi di satira. La satira lavora sulle zone grigie, esaspera, deforma, non pretende di essere equanime ma pretende di essere libera. Quando la si punisce non per violazioni di legge, ma perché "irriverente con chi comanda", il problema non è il buon gusto: è la salute dell'ecosistema democratico.

Il paradosso è lampante: chi ha denunciato per anni la cancel culture oggi esulta alla rimozione di conduttori sgraditi. L'invito, quindi, è quello che Colbert ha affidato agli applausi: restare forti, restare coraggiosi. La tv generalista è in trasformazione e il late night tradizionale deve reinventarsi, va bene, ma la libertà di parola non è un'opzione da attivare o disattivare a stagione.
Torniamo all'aforisma di Ionesco in apertura. Se sostituiamo quel "io" con il sistema dei media americani, la frase è più di una boutade. Non perché i late show debbano piacere, ma perché devono poter esistere. Se il prossimo applauso in piedi non avrà un palco su cui alzarsi, avremo perso qualcosa che non si misura in share: la possibilità di ridere del potere.