Carbone sul cuore
L'amore di una madre per il proprio bambino non è mai dovuto. I battiti che scuotono il petto ingannano, sono menzogne che avvolgono con una coperta troppo corta il ghiaccio che paralizza il corpo. Struggersi rannicchiati su un sedile dimenticato, camuffarsi, annullarsi per il desiderio disperato di un sorriso, perché con l'approvazione del capo si accenda il tronco bagnato di un falò invisibile dove scaldarsi. Se da piccoli il freddo spezza le ossa poi si cresce senza più difese, permeabili al nulla che squarcia la vita e umilia il cuore. E una cascata di cristalli di sangue cade a raggrumarsi sugli ultimi sospiri di purezza, ormai persa, ormai mutata in egoismo e diffidenza. In certe favole l'eroe non arriva mai, dalla cima della montagna si sente solo il rumore del deserto e quello che si credeva essere il nobile colpo d'ali immacolate di bianchi cavalli non è che il battito nervoso del becco di rossi avvoltoi in agguato sopra il cielo, mentre lacrime di pioggia cadono sul capo ad annunciare tempesta. No, non è pioggia, ma saliva acida d'uccelli, l'acquolina di chi corteggia la sua preda e sta per sferrare l'attacco.
Il buio illumina la strada degli incubi che conducono alla disperazione. Di notte la solitudine bagna i cuscini mentre nello spazio oltre il muro la vita si riempie squallida di respiri affannati che accompagnano corpi nei corpi, macchine arrugginite dentro altra ruggine. L'urina riscalda, è una breve carezza che occulta l'abbandono, ma per alcuni una debolezza che reclama punizione. Così la strada per l'amore fiorisce di lividi che colorano la pelle mentre una preghiera va a morire da qualche parte nel vento e il sale delle lacrime che feriscono le guance aride ha il sapore dello zucchero filato. E non è mai abbastanza, e se ne vuole sempre di più. E' come una canzone di Antony and the Johnsons. And it's true I always wanted love to be filled with pain and bruises. I am very happy so please hit me. I am very happy so please hurt me. Nel sogno si fa largo la disillusione. E' già finito il tempo delle favole, perché l'amore gli adulti te lo danno con un colpo di cinghia: benvenuto, questa è la realtà!
Asia Argento. La regista che non ti aspetti per la trasposizione cinematografica di un libro così straziante, che tanta fortuna ha avuto alla sua pubblicazione. O forse è solo che non riuscivi ad immaginarti nessuno in grado di tradurre in immagini parole gonfie allo stesso tempo di incanto e disincanto, figlie di una penna intinta nella grazia. L'universo distorto di J.T. Leroy è un posto pericoloso nel quale addentrarsi, perché se ne potrebbe uscire senza occhi, strappati per non dover sopportare la vista di un dolore troppo ingombrante. E' davvero difficile accettare il fatto che a trascinarlo nella sua folle corsa verso l'autodistruzione sia stata proprio sua madre, un'altra vittima, abbandonata al suo infame destino dalla società, che voleva solo amare e farsi amare dal suo piccolo. Sarah ha impacchettato il cuore del suo bambino e l'ha portato con sé, sballottandolo senza attenzione da un inferno all'altro, incapace di rendersi conto che i battiti che perdeva non li avrebbe più recuperati e che proprio in quei battiti sarebbe rimasta la sua innocenza, cancellata con un soffio d'alito pesante dall'incoscienza di una madre allo sbando.
Asia Argento, dunque. La prima arrivata che si arroga il diritto di prendere la storia e, insieme ad Alessandro Magania, la riscrive per farne un film. Roba da brividi. Per carità, niente pregiudizi, è solo che il suo talento non si è mai rivelato nei precedenti lavori e sapere una così fragile bellezza nelle mani di una persona che non gode della tua fiducia è terrorizzante. Poi parte il nastro, il rumore del proiettore pacifica come per magia, e sullo schermo si srotola una lunga carrellata su villette a schiera blu con la camera inclinata. Bastano pochi attimi perché le inconfondibili immagini sporche del cinema indipendente ti rasserenino. Dovunque vada, Asia ha già vinto, perché ha avuto il coraggio di raccontare senza vanità le atrocità subite da un'anima innocente, perché si è scuoiata per diventare Sarah, perché ha contribuito inevitabilmente alla liberazione di J.T.. Non importa che una manciata di virgole sia andata completamente persa, che passaggi fondamentali non godano di un'adeguata resa visiva e che l'adattamento eccessivamente politically correct indebolisca per forza di cose l'intero impianto narrativo: per quanti difetti possiamo divertirci a trovare, quella a cui assistiamo è la travagliata storia d'amore tra Jeremiah e Sarah e tanto basta per non restare indifferenti.
La forza devastante di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa risiede nell'incanto disincantato rielaborato con tenera semplicità dalla nostra Asia. E' un road movie, un'odissea allucinata a stelle e strisce in fiamme, un viaggio interminabile attraverso il Tennessee, lungo le sue strade spoglie, dentro i suoi motel decrepiti, il vagare senza meta di due strani angeli che cercano di toccarsi senza farsi male, ma non ci riescono perché nessuno ha insegnato loro a muovere in un abbraccio le piume sulla schiena. Così vengono strappati l'uno all'altra una volta, poi un'altra e un'altra ancora, ma il resto è sempre peggio: signorine con le orecchie insonorizzate dal cerume che blaterano inutili pappardelle, cattedrali di bigottismo abitate da giganti fanatici di Gesù Cristo che purificano con acqua bollente e salmi biblici. Sterili lezioni di vita di cui un bambino non sa che farsi. L'alternativa, quella principale, è una madre distratta, donna oggetto di un popolo di camionisti dal testosterone che sbottona le camicie. Jeremiah la segue di tir in tir ed impotente la guarda disciogliersi nella droga, nella prostituzione, nella miseria e diventare giorno dopo giorno completamente folle, mentre il malato processo di identificazione madre-figlio arriverà a drammatico compimento tra le lenzuola dei letti degli stessi uomini.
Per la sua seconda prova da regista, quattro anni dopo l'esordio dietro la macchina da presa con Scarlet Diva, Asia Argento assolda un vero e proprio esercito di star americane, da Peter Fonda a Winona Ryder, da Michael Pitt a Kip Pardue, fino a Marylin Manson, con il jolly italiano Ornella Muti nei panni della nonna, ma più dei grandi nomi, relegati tutti comunque a ruoli minori, ad impressionare sono i piccoli che si susseguono di volta in volta nell'interpretazione di Jeremiah: i gemelli Dylan Sprouse e Cole Sprouse, e soprattutto lo straordinario Jimmy Bennet che nella prima parte del film ruba letteralmente la scena alla Argento, la quale, tutto sommato, riesce a calarsi con apprezzabile disinvoltura in un ruolo ostico come quello di Sarah. Asia Argento ha ancora tanta strada da fare prima di diventare una vera regista, ma i primi passi sembrano confortanti. L'abuso della soggettiva e delle ellissi, il ricorso a vecchi trucchetti per le sequenze più visionarie, certe scelte infelici riguardo il posizionamento della camera, sono peccati perdonabili perché per il resto il lavoro è senza dubbio encomiabile.
E, a parte tutto, siamo fieri che questo film sia di un'italiana.