Come da pronostico, Anatomy of a Fall di Justin Triet ha vinto la Palma d'Oro. Una vittoria ampiamente annunciata, per un Concorso buono ma non troppo entusiasmante. Le "cose" migliori, probabilmente, le abbiamo viste nelle sezioni collaterali (come How to Have a Sex di Molly Manning Walker, che ha vinto Un Certain Regard), lasciando alla Compétition Officielle lo spazio scenico di una gara che non è mai entrata davvero nel vivo, pur vedendo trionfare probabilmente e oggettivamente il miglior film in Concorso (noi il film lo abbiamo amato, come potete leggere nella nostra recensione), al pari magari di Monster di Kore-eda.
Tuttavia, mentre la Croisette sta pian piano tornando alla normalità (stanotte abbiamo sognato la gincana di transenne che circondava il Palais), il pensiero oggettivo non può non essere rivolto al nostro cinema. Riassumendo: l'Italia ha perso, ma ha vinto. Un ossimoro? Una campanilistica consolazione? Il bicchiere mezzo pieno? No, piuttosto una lucida riflessione su ciò che abbiamo visto in correlazione con le produzioni internazionali.
Se Il sol dell'avvenire di Nanni Moretti ha rappresentato una sorta di divertissement, le suggestioni principali sono arrivate proprio da Rapito e da Alice Rohrwacher con La chimera. Entrambi apprezzati dalla stampa internazionale. Ma lo ripetiamo: non è un dramma uscire sconfitti da Cannes. Piuttosto, può diventare pericolosamente drammatico solo se ci si concentra nel contesto della competizione, senza soffermarsi sulla qualità oggettiva dei titoli in questione, e su quanto siano motivo di orgoglio.
Il sol dell'avvenire. Nanni cita Nanni
Discorso a parte per Il sol dell'avvenire. Già uscito in Italia (quasi quattro milioni di incasso), il film di Nanni Moretti non è mai stato tra i favoriti di Cannes 2023. Una sorta di presentazione francese, più che altro. Un'ulteriore attestazione di stima da parte di Thierry Frémaux, che da sempre tiene un posto "caldo" al regista di Caro diario. Come abbiamo scritto nella recensione, Il sol dell'avvenire è una sorta di summa del cinema di Nanni Moretti. Una summa, in questo caso, sorretta da un umorismo perspicace, come ha raccontato durante la conferenza stampa di Cannes. "Racconto ciò che conosco, e volevo farlo col sorriso. L'ironia è un modo per guardare a se stessi e ai propri difetti". Benché sia stato molto amato in Italia, il film (presentato con il titolo internazionale, A Brighter Tomorrow) non ha però convito la critica internazionale, né è riuscita a scalfire l'attenzione della Giuria. Sebbene il balletto sul red carpet, sulle note di Franco Battiato, sia stato uno dei momenti più sinceri di questa 76ª edizione del Festival di Cannes.
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Rapito, un film dell'orrore
Rapito di Marco Bellocchio è un film dell'orrore. Per tono, per vocazione, per la gestione (anche) onirica degli spazi. Non solo, è l'ennesima dimostrazione di quanto il regista abbia una fulgida lucidità, forse superiore ai suoi esordi, o forse più completa e maggiormente consapevole. Letteralmente, siamo stupiti quanto scioccati: un autore in continua espansione e in continua evoluzione, brillante nel portare alla luce la sua idea di cinema, legandola alle storie e ai personaggi. Anche verso quei personaggi più sinistri e più ambigui, e quindi perfetti per essere inquadrati. Per questo Rapito è talmente plasmabile che può essere visto e letto in un'infinità di modi. Una presa di posizione, un documento storico, la manifestazione reazionaria del potere, religioso e sociale. Amplificando i colori e i toni (straordinaria la colonna sonora di Fabio Massimo Capogrosso), e ripercorrendo una terribile (e nascosta) pagina di storia. La confisca da parte della Chiesa di quei bambini ritenuti di cristiana proprietà. Con una folgorante citazione cinematografica: il Papa IX di un mostruoso Paolo Pierobon, come se fosse il dittatore Adenoid Hynkel de Il Grande Dittatore di Charlie Chaplin.
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La chimera, immagini e parole
Qualcuno lo chiama realismo magico. Per noi, il cinema di Alice Rohrwacher è piuttosto la massima espressione di un cinema artigianale, riassunto in una sostanza visiva brillante e fuori da ogni schema. Un cinema fortemente identitario, eppure universale (come vi abbiamo suggerito nella recensione). Talmente universale, che il talento della regista è stato in qualche modo battezzato dall'endorsement di Martin Scorsese, che ha amato (come dargli torto) Lazzaro Felice. Sulla stessa tavolozza di colori, mischiando il passato che torna, e il presente che sfugge, ecco un'altra gemma, La chimera. Titolo antico, riverberi millenari, sostanza fantastica. Ok, abbiamo finito i giri di parole, andiamo al punto: se in Rapito di Marco Bellocchio, contestualmente a Cannes 2023, c'è la sostanza celebrale, ne La chimera c'è la leggerezza narrativa di una vicenda di ricerca umana e temporale, marcatamente legata al territorio e al concetto di racconto. Un racconto puro, scevro dagli orpelli, e quindi legato alle immagini e alle parole. Altro che sconfitta, La chimera è un tripudio.