C'eravamo tanto Avati
Non si vive di soli ricordi, ma Pupi Avati nel suo far cinema non riesce proprio a rinunciarvici. A intervalli regolari (e sempre più ravvicinati ormai) il regista bolognese tira fuori dalla sua spaziosa memoria immagini e atmosfere che hanno segnato il suo passato e ci costruisce attorno un film. Stavolta tocca a Gli amici del Bar Margherita, figure per lui mitiche che meritano di scrollarsi di dosso la polvere di una semplice fotografia ingiallita dal tempo. Avati gli ridà vita sullo schermo, senza presentarli come intoccabili, eppure il loro fascino sembra essere andato perduto in una realtà che va limitata a un vicolo, ai portici della Bologna che riempivano. Per narrarne i comportamenti strampalati e le tenere situazioni da come eravamo si affida a due osservatori privilegiati, entrambi espressione di sé: un cineoperatore che documenta con la sua telecamera di battaglia tutti gli eventi principali che coinvolgono il clan del Bar Margherita, e il suo vero alter ego, un diciottenne smaliziato che s'intromette, con la sua voce fuori campo, in ogni pagina di quelle vite, dalle quali stenta a farsi accettare.
La lunga introduzione del film sembra non finire mai, con la presentazione dilatata dei personaggi e il relativo ricamo di tic, imprese e storielline da bar. Si scivola così senza troppo sforzo nell'album dei ricordi di Avati, si sfogliano le pagine di esistenze che non gli appartengono se non da spettatore, e nel trattarle con una sapiente ironia il regista spesso non si trattiene dal farsi beffa di esse. La proverbiale nostalgia che coglie Avati in queste operazioni qui è mascherata da una dose quasi obbligata di cinismo che vela anche lo sguardo un po' supponente che il film indirizza sulle donne, tutte (o almeno quelle giovani) approfittatrici votate all'inganno, messe in disparte dall'uomo ma mai dome e pronte a prendersi la propria rivincita con metodi non proprio esaltanti. A fronte di una serie di personaggi eccessivamente caricati, che con le loro stramberie tengono a debita distanza lo spettatore, si rileva però una certa malia nella messa in scena di quest'epoca ormai lontana, colta in alcuni suoi aspetti definitori: le invenzioni eccentriche (gli occhiali K grazie ai quali vedere le donne nude), gli eventi aggreganti quali il Festival di Sanremo, che raccoglieva attorno alla radio tutti i frequentatori del bar, il pudore nelle relazioni interpersonali che lascia sempre più il posto a una certa sfrontatezza da bulletti, e un corredo di vestiti, accessori, manifesti e insegne che provvedono a lasciare in bocca il sapore di quegli anni Cinquanta verso i quali, in verità, forse è un po' difficile struggersi di nostalgia. Sebbene in qualche lampo l'opera appaia piuttosto spigliata e godibile, troppo spesso si avverte una stanchezza del racconto che si sfilaccia in una serie di trame individuali che non trovano nel finale una degna soluzione che riunisca l'intero gruppo oltre il fugace attimo di una foto nella quale entrare tutti insieme. Il nutrito cast blasonato si rivela la parte più debole del progetto: se al posto di volti così noti, che con il proprio carisma portano tutti sopra le righe i rispettivi personaggi stonando chiaramente in un film dall'intenzione corale, ci fossero state facce nuove e più fresche, certamente ne avrebbe giovato l'intera opera. Liberatosi di quella pesantezza che aveva affogato nella storia e nella tragedia Il papà di Giovanna, Avati recupera comunque la capacità di intrattenere senza strafare, potendo contare sul disimpegno di una rievocazione fine a sé stessa.