Sono arrivata a Hollywood senza dover rifarmi il naso, aggiustarmi i denti o cambiarmi il nome. Questo è molto gratificante.
"Se Barbra Streisand e tua madre stessero annegando, tu chi salveresti?", domanda il signor Sheffield a Fran Fine (alias Francesca Cacace); "Be', salverei mia madre: Barbra può camminare sull'acqua!". L'adorazione di Fran e della sua famiglia nei confronti di Barbra Streisand è uno dei leitmotiv della sit-com La tata, ma non si tratta dell'unico caso in cui la passione per la diva newyorkese diventa un elemento ricorrente in una serie TV: di riferimenti a lei e ai suoi film è pieno zeppo Una mamma per amica, in cui Lorelai Gilmore si dichiara in più occasioni una sua fan sfegatata, mentre in Glee il personaggio di Rachel Berry la considera il massimo modello da seguire (e nel corso della serie si esibisce in diverse sue canzoni). Del resto, soprattutto - ma non solo - nel panorama culturale americano, Barbra Streisand è molto più di una 'semplice' superstar, ma rimanda per antonomasia ai concetti stessi di celebrità, talento e carisma, con un impatto che prescinde dalle epoche e dalle generazioni.
Ageless and evergreen: una star per tutte le stagioni
Della persistenza della Streisand nel nostro immaginario collettivo si potrebbero citare dozzine e dozzine di altri esempi: da I Simpson, incluso l'episodio in cui Nelson Muntz intona Papa, Can You Hear Me? ricreando l'identica scena del musical Yentl, alla puntata di South Park in cui una Barbra Streisand animata si trasforma in un malevolo robot e si batte contro Robert Smith dei Cure; passando per il tormentone dance dei Duck Sauce del 2010, che porta come (bizzarro) titolo il nome della protagonista di Funny Girl. Basta una straordinaria longevità professionale a garantire una tale statura iconica? Non proprio, ma di certo anch'essa aiuta: basti considerare che, se la sua filmografia è ormai ferma da dieci anni esatti, nel frattempo sul versante musicale una Streisand ultrasettantenne ha piazzato un altro paio di album al primo posto negli Stati Uniti e rimane una presenza costante nelle classifiche di vendita.
Oggi Barbara Joan Streisand (fu lei stessa a togliere una lettera dal proprio nome, rendendolo inconfondibile) spegne ottanta candeline, conservando una quantità di riconoscimenti e di record che sarebbe lungo elencare. Più interessante, invece, è riflettere sulle specificità di una carriera che non conosce eguali, e che dagli anni Sessanta in poi ha segnato in effetti una cesura nel mondo dello show-business: non tanto e non solo per la capacità di sostenere il binomio di attrice e cantante con egregi risultati da ambo le parti (prima di lei c'erano Judy Garland e Doris Day; dopo di lei verranno Diana Ross, Bette Midler, Cher e Lady Gaga), ma per come Barbra Streisand ha inventato un nuovo modo di essere una star, in virtù di una 'trasversalità' assurta a marchio distintivo del suo percorso artistico e che le ha permesso di infrangere più volte barriere e pregiudizi.
Barbra Streisand: cinque grandi ruoli di un'eterna "funny girl"
I'm the greatest star: l'esordio da Oscar di un'indomita Funny Girl
Il 18 settembre 1968 nei cinema americani debutta Funny Girl. Si tratta del film d'esordio di una Barbra Streisand appena ventiseienne, diretto da un veterano del calibro di William Wyler e basato sull'omonimo musical teatrale di Isobel Lennart, con canzoni composte da Jule Styne e Bob Merrill. Ma Barbra, all'epoca, è tutt'altro che una neofita: dal 1963, anno del suo debutto discografico, è la voce femminile più amata d'America, e dal 1964 ha già interpretato Funny Girl a Broadway e a Londra. D'altronde, il ruolo non potrebbe essere più perfetto per lei: lo spettacolo racconta infatti l'ascesa di Fanny Brice, primadonna del vaudeville nella prima metà del secolo, nota per le sue doti comiche, oltre a quelle vocali. In patria Funny Girl è il maggior successo dell'anno, con oltre quaranta milioni di spettatori; e la Streisand, che aveva avuto tempo di cimentarsi con il personaggio a teatro, si guadagna il Golden Globe e segna un inedito ex-aequo con Katharine Hepburn per l'Oscar come miglior attrice.
Già Funny Girl sarebbe una prova sufficiente che, con Barbra Streisand, ci si trova di fronte a un'attrice fuori dal comune, e non soltanto perché il ruolo le permette di far leva pure sul suo proverbiale talento canoro: le armi vincenti del film sono anche la vivacità innata della Brice e della sua interprete, in una costante compenetrazione fra realtà e palcoscenico (la Fanny della Streisand è una commediante, sempre e comunque), e il connubio fra l'anima melodrammatica della storia e l'inossidabile autoironia della protagonista, che in un numero musicale si definisce "the greatest star", ma poi non esita ad abbracciare la farsa per far divertire il pubblico, scherzando su se stessa in mezzo a un plotone di ballerine più agili e slanciate. Il profilo 'importante', esaltato spesso nelle copertine dei suoi dischi, e quella bellezza alternativa ai canoni di una Audrey Hepburn o una Marilyn Monroe sono dunque gli strumenti di una rivendicazione di 'unicità' che, da allora, Barbra porterà avanti in vari film a venire.
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I gotta fly once, I gotta try once: la grinta è donna
Se le analogie tra Fanny Brice e Barbra Streisand si sprecano, è pur vero che, da Funny Girl in poi, quasi tutti i suoi personaggi finiranno per assumere e riproporre alcuni aspetti-chiave dell'immagine della Streisand. Fra il debutto nel 1968 e il decennio seguente Barbra recita in un totale di undici pellicole (incluso il ritorno nei panni di Fanny Brice nel sequel Funny Lady), e c'è un fil rouge che sembra legare ciascuno di questi ruoli: si tratta di donne grintose, determinate, pronte a prendere in mano le redini della situazione, anziché restare in balia degli eventi, e a far leva su una sensualità spigliata e sbarazzina, mettendo inesorabilmente all'angolo i partner maschili di turno. Non è un caso che, in questo periodo, la Streisand si riveli una formidabile attrice comica, compiendo un rapido passaggio dal terreno del musical a quello della commedia brillante.
Infatti, con l'avvento della New Hollywood e di una nuova generazione di spettatori, il musical tradizionale si avvia a una fase di declino; e se Hello, Dolly!, diretto da Gene Kelly, è comunque uno dei campioni d'incassi del 1969, il modesto riscontro de L'amica delle 5½ di Vincente Minnelli spinge Barbra a cimentarsi con delle commedie tout court che strizzano l'occhio ai ritmi della screwball, quali Il gufo e la gattina di Herbert Ross, Ma papà ti manda sola? di Peter Bogdanovich e Ma chi te l'ha fatto fare? di Peter Yates. Intanto si mette alla prova come interprete drammatica nel più ambizioso (e meno fortunato) Voglio la libertà di Irvin Kershner, in cui affronta di petto il tema della posizione della donna nella società degli anni Settanta, e nel celeberrimo Come eravamo, affresco di vent'anni di storia americana per la regia di Sydney Pollack.
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People who need people: la forza dei sentimenti, fra dramma e commedia
Per inquadrare la carriera d'attrice di Barbra Streisand, è emblematico prendere in esame appunto due pietre miliari della sua filmografia, Ma papà ti manda sola? del 1972 e Come eravamo del 1973: due opere diversissime, separate da appena un anno, in cui trovano espressione i due poli opposti della Streisand come persona e come personaggio. Nell'esilarante commedia di Bodganovich, ispirata a Susanna! di Howard Hawks, Barbra è un'adorabile stalker che 'perseguita' un impacciato Ryan O'Neal e usa la propria ostinazione come mezzo per conquistarne le attenzioni e l'amore: insomma, è una giovane donna risoluta a cui è impossibile dire di no, ma che riesce pure a sciogliere il risentimento del suo partner sfoderando una dolcezza irresistibile mentre gli canta As Time Goes By sdraiata su un pianoforte.
L'energia vitalistica della Judy Maxwell di Ma papà ti manda sola? fa il paio con l'idealismo incrollabile e senza compromessi di Kathy Morosky, attivista di sinistra che in Come eravamo fa innamorare di sé il più pacato Robert Redford, in uno scontro di caratteri in cui finiscono per collidere la dimensione privata e quella politica. In fondo, Barbra Streisand non è mai stata una trasformista alla Meryl Streep: al contrario, le sue protagoniste paiono assumere per osmosi il magnetismo e la forza di carattere associati alla loro interprete, quasi fossero tutte sue declinazioni. Perfino quando, come nel caso di È nata una stella, il presupposto parrebbe il contrario: se nel musical del 1954 la Esther di Judy Garland si mostrava timida e succube rispetto allo star system hollywoodiano, quella di Barbra nel remake di Frank Pierson del 1976 è una popstar 'moderna' con un pieno controllo sulla propria carriera.
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Why settle for just a piece of sky: nuove frontiere da raggiungere
È nata una stella costituisce per certi versi la "prova generale" di una nuova sfida per Barbra Streisand: trovarsi contemporaneamente davanti e dietro la macchina da presa e avere un pieno controllo creativo. La pellicola, il secondo maggior incasso del 1976 negli USA, è co-finanziata dalla sua Barwood Films, ma come produttore viene accreditato solo il suo fidanzato dell'epoca, l'eccentrico Jon Peters, che sarà poi ritratto da Bradley Cooper in Licorice Pizza (con tanto di vademecum sulla corretta pronuncia del cognome Streisand). Ma sette anni più tardi, Barbra corona finalmente un progetto coltivato fin da giovanissima: portare sullo schermo Yentl, musical tratto da un racconto di Isaac Bashevis Singer su una ragazza ebrea che si finge un maschio per poter studiare in una scuola religiosa. Si tratta forse della sua scommessa più ardua: Yentl, realizzato a dispetto dello scetticismo degli studios, vede Barbra nella quadruplice veste di attrice, regista, sceneggiatrice e produttrice, caso più unico che raro per una donna.
"A Hollywood una donna può essere un'attrice, una cantante, una ballerina. Ma non le si permetta di fare molto di più", commenterà lei in merito ai pregiudizi sul film e alle accuse di narcisismo. La sua rivincita consisterà proprio nel successo di Yentl, che registra oltre sessanta milioni di dollari al box-office e le permette di diventare la prima cineasta di sesso femminile insignita del Golden Globe per la miglior regia (agli Oscar, invece, il film vince il premio per la colonna sonora, ma viene escluso dalle categorie principali). E la tenera caparbietà della sua Yentl, manco a dirlo, è l'ennesimo riflesso di quella della Streisand, che nel 1991 tornerà a macinare consensi in qualità di regista con il dramma psicologico Il principe delle maree, trasposizione dell'omonimo romanzo di Pat Conroy, in cui divide la scena con Nick Nolte (e stavolta, l'Academy le tributerà quantomeno la nomination per il miglior film).
Dunque, al di là dei milioni di dischi venduti, dei trofei vinti, delle citazioni e degli omaggi che l'hanno resa un pilastro della cultura popolare (e della cultura LGBT), ad aver reso Barbra Streisand una star differente da ogni altra - e una fra le più amate nella storia dello spettacolo - sono stati anche e soprattutto questi elementi: un carisma talmente ampio da travalicare i limiti della persona ed estendersi alla galleria di ruoli memorabili a cui ha prestato volto e voce; e la puntualità nel ricordarci, attraverso il proprio lavoro, che non bisogna farsi intimorire dagli ostacoli che sembrano troppo alti, né accontentarsi di contemplare soltanto un "frammento di cielo".