Con questa recensione di Azor, esordio nel lungometraggio del cineasta ginevrino Andreas Fontana, arriviamo al culmine di un percorso molto particolare: il film ha infatti esordito, seppure solo in forma progettuale, a Locarno nel 2020, dove era tra i titoli svizzeri del concorso The Films After Tomorrow, dedicato a lungometraggi la cui lavorazione era stata interrotta dalla pandemia. In tale sede ha ricevuto il premio per il miglior progetto elvetico assegnato dalla giuria dei giovani, e nei mesi successivi ha completato la post-produzione in tempo per la Berlinale, dove è stato selezionato nella sezione competitiva Encounters. Nel corso della kermesse tedesca i diritti per diversi paesi, tra cui l'Italia, sono stati acquistati da MUBI (dove è disponibile da oggi), ma prima di approdare in streaming la pellicola ha frequentato altri festival prestigiosi, tra cui quelli di Londra e San Sebastián. E in patria, prima di uscire in sala, è stato al Festival di Zurigo, dove una giuria di critici internazionali (incluso il sottoscritto) gli ha assegnato l'Emerging Swiss Talent Award, che va al migliore esordio elvetico nel concorso Focus, incentrato su produzioni svizzere, tedesche e austriache.
Alla ricerca del collega perduto
Azor (titolo che deriva da un'espressione gergale spiegata verso la fine del film) è ambientato in Argentina, ai tempi della dittatura militare. Keys, banchiere svizzero attivo nella regione, è sparito senza lasciare traccia, e da Ginevra, per rintracciarlo e concludere alcuni affari in sospeso, arriva il collega Yvan De Wiel (Fabrizio Rongione), accompagnato dalla moglie Inés (Stéphanie Cléau). Alternando francese e spagnolo a seconda dell'interlocutore, Yvan intreccia relazioni professionali e personali di vario genere, entrando in contatto con le famiglie più altolocate di Buenos Aires e scoprendo che non tutto è come sembra. In particolare, la scomparsa di Keys assume toni sempre più strani, misteriosi e inquietanti, con dicerie di ogni tipo sulle sue abitudini quando si trovava in loco, ivi compreso il fatto che avesse un vero e proprio appartamento tutto suo anziché farsi spesare un albergo dalla banca. E a un certo punto sarà necessario uscire dai confini della città, e familiarizzarsi con le aree meno rassicuranti del paese...
El corazón de las tinieblas
Andreas Fontana, classe 1982, conosce bene l'Argentina, essendosi spesso recato lì e avendoci mosso i primi passi nel mondo della settima arte, come assistente alla regia (e ha firmato la sceneggiatura di questo film con Mariano Llinas, uno dei massimi esponenti del cinema argentino contemporaneo). E ha anche una storia personale con il mondo della finanza, con un nonno banchiere (l'altro, ironia della sorte, era un giudice, creando un contrasto morale che si riflette parzialmente sullo schermo). Unendo questi due elementi, partendo dal vero coinvolgimento dell'universo bancario svizzero negli affari degli argentini durante gli anni della dittatura (un elemento che in ambito elvetico non è menzionato tanto spesso), il cineasta costruisce un thriller che ricorda le atmosfere di un John Le Carré, dove il mood e le parole hanno la meglio su azione e sparatorie. Un mood che in questo caso è reso ancora più palpabile e verosimile dalla decisione di affidare gran parte dei ruoli secondari a non professionisti che hanno la stessa estrazione sociale dei personaggi che interpretano.
Spia e lascia spiare: gli intrighi orditi da John Le Carré sullo schermo
Il risultato è un esordio con una grande maturità stilistica, firmato da un regista che padroneggia il mezzo cinematografico con notevole sicurezza e precisione, sapendo esattamente dove vuole andare a parare con questo atipico mystery che mette a nudo i cuori di tenebra di altre epoche (e non è casuale la nostra menzione di Joseph Conrad, la cui influenza è palese soprattutto nella seconda metà del film). A dieci anni di distanza, è l'erede spirituale de La talpa di Tomas Alfredson (guarda caso, da un romanzo del già citato Le Carré): una storia d'altri tempi, glaciale e al contempo implacabile, che potrebbe benissimo essere stata girata negli anni che sta raccontando. Un racconto che ci saluta con un'inquadratura finale indelebile, il cui impatto non risulta attenuato dallo schermo più piccolo su cui molti spettatori vedranno uno degli esordi più interessanti del 2021.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Azor, sottolineando come si tratti di un thriller ambiguo e ambizioso che ricrea l'Argentina degli anni Ottanta per raccontare la dittatura militare e il ruolo delle banche in quel periodo difficile.
Perché ci piace
- La ricostruzione storica è precisa e al contempo intrisa di onirico mistero.
- La componente thriller è elaborata in modo originale.
- L'apparato formale è dotato di una maturità notevole per un esordio registico.
Cosa non va
- Peccato che in Italia non arrivi in sala.
- Chi si aspetta un thriller più convenzionale potrebbe rimanere deluso.