Aprite quella porta, è estate!
Da tempo siamo ormai abituati alle fantasiose sorprese che le case di distribuzione riservano al pubblico italiano durante la sonnolenta stagione estiva. Forse è l'afa a dare alla testa, verrebbe da metterla in questi termini, ma nei pacchetti distributivi proposti, e spesso imposti, ai gestori si vede riesumare proprio di tutto, tra scarti di magazzino e gioiellini inaspettati, per lo più thriller e horror in entrambi i casi. Così, all'affacciarsi di un week end alquanto delicato nel quale sarà prevedibilmente inutile piuttosto che incauto tentare di scontrarsi con Il cavaliere oscuro, e grazie al buon occhio della Ripley's Film vedrà la luce dei proiettori del Bel Paese anche il coreano Black House (anche questo in aria di un imminente remake statunitense), la drammatica storia dell'assicuratore Jun-oh (il sempre bravo Jeong-min Hwang) risucchiato in una spirale di sospetti, menzogne e violenza che lo costringerà non solo a confrontarsi con il degrado e la follia umana ma anche a fare i conti col proprio passato.
Peccato che la vetrina udinese - Black House era uno dei due titoli selezionati per rappresentare la Corea all'ultimo Horror Day - abbia visto la pellicola di Terra Shin un po' troppo ingiustamente maltrattata. Le critiche di fatto si sono mosse su piani differenti dimostrando forse un errato approccio ad un film comunque non esente da imperfezioni. C'è stato chi ne ha prediletto la prima parte, quella più prettamente narrativa e legata a dinamiche investigative, mentre i più hanno esaltato l'abisso macabro in cui sprofonda il film in un secondo tempo nel quale domina l'essenza horror del racconto. Due identità stridenti in effetti se considerate singolarmente e in un quadro più superficiale, ma che non mancano invece di coerenza nell'insieme del film tutto. Scorrono quindi le prime bobine appannate da un sentore di banalità, in cui lo spettatore più avvezzo alle chiacchiere tratterà a fatica la gioia nell'annunciare al vicino di poltrona di aver già smascherato l'assassino. Ma non è nell'effetto sorpresa la chiave di questo lavoro: laddove lo "svago" dell'indagine è negato, la suggestione pare acquistare consistenza nelle vagamente hitchcockiane dinamiche di scarto tra ciò che lo spettatore può sapere e quello che invece gli verrà occultato. Certo Shin non è Alfred Hitchcock, ma nemmeno il soggetto è paragonabile a quello di Marnie.
Così, se è perdonabile qualche passo maldestro del regista coreano, che in più di qualche occasione inciampa sulla necessità di sottolineare dettagli e mimiche che si preferirebbe venissero lasciate alle crime series, gli vanno pure riconosciuti una discreta dose di coraggio e personalità non per forza pretendibili da produzioni come quella di Black House. E proprio quando si comincia a rimpiangere la totale assenza di una vena d'ironia e di senso del grottesco - che parevano molto più adatti a rendere uno script tanto scarno e quasi privo di simbolismi, a differenza dei pochi guizzi creativi e dello stile apparentemente atrofico mostrati fino a quel momento - si spalancano minacciose le porte della Casa Nera, una voragine d'orrore gore di buonissima fattura, pronta a ridestare l'attenzione dello spettatore leggermente sopito. È in questa seconda parte che è chiaro si compensano i pesi sulla bilancia nonostante il gioco tra i due segmenti del film non sia calcolato con precisione chirurgica. Qui Shin esprime al meglio le proprie doti dimostrando di possedere un occhio non poi così acerbo come invece potevano suggerire i minuti iniziali della pellicola, ma ciò che più d'altro si apprezza è l'approccio non convenzionale con cui l'esordiente regista affronta un adattamento che nasce fin troppo chiaramente fotocopiato da molti, già visti, thriller psicologici americani.