Pochi giorni dopo la presentazione di Io sono Li alla 68esima Mostra del Cinema di Venezia, il film di Andrea Segre debutta ufficialmente nelle sale. Abbiamo fatto una chiacchierata con il regista per parlare con lui del tema della pellicola, quello delle differenze culturali, mai come oggi particolarmente attuale, di come è nato il progetto e di come è stato sviluppato - anche con la collaborazione degli interpreti, tra attori professionisti e non - e del perchè vuole continuare ad "esplorare le realtà".
Hai presentato Io sono Li alla Mostra del Cinema di Venezia, e il tuo non è stato l'unico film incentrato sulle differenze culturali. Che futuro immagini per il nostro Paese, da questo punto di vista?
Il futuro è nel presente. E' nella scuola di mia figlia come in tante altre scuole d'Italia. Si tratta solo di avere il coraggio e l'intelligenza di non dare più ascolto ai "furbi della paura", quelli che alimentano la paura dell'altro per generare consenso; quelli che non agiscono politiche di accoglienza e di dialogo per creare emergenze che diano poi spazio a soluzioni "drastiche".
Se impariamo a non ascoltarli, poi il dialogo tra differenze, per quanto naturalmente complesso, sarà molto più vivo, interessante e utile
Per una volta ho provato a non immergermi totalmente nella realtà, ma a lasciare che suoi elementi diventassero punti di partenza per miei viaggi di fantasia. Ogni tanto ripassavo per Chioggia, annusavo, ascoltavo, spiavo. Ma poi a casa lasciavo che la fantasia, il pensiero e la poesia conducessero la costruzione della storia.
Trovandoti a dirigere sia attori non professionisti, che nomi conosciuti del nostro cinema - tra cui Giuseppe Battiston - hai dovuto dirigerli e guidarli in maniera differente?
Ho chiesto a loro di conoscersi a vicenda. Ho chiesto di lasciare spazio a contaminazioni irrituali. Citran ha passato delle mattinate al mercato ittico, Battiston ha viaggiato a cento all'ora in barchini di vetroresina in laguna, Paolini è uscito a pescare con pescherecci e piccole barche da laguna. Ognuno di loro aveva un suo accompagnatore nella realtà che poi è diventato anche attore nel film. Contemporaneamente ho chiesto ai non professionisti di trovare un modo per "farsi capire" dagli attori professionisti. E' stato il modo per far loro capire cosa significava recitare.
Esplorare le realtà è ciò che amo. Realtà apparentemente minori, a cui la grande narrazione mediatica non concede spazio di parola, ma che rappresentano spesso il punto di vista più importante, più profondo, più umano. E' la loro dignità che metto al centro dei miei racconti. Ed è con loro, non per loro o su di loro che cerco di raccontare. Prima di tutto perchè questo mi permette di conoscere e di arricchire la mia prospettiva sul mondo e sulla vita. E spero che questo avvenga anche a chi poi ascolta e vede i miei, anzi i nostri racconti. Farlo con il documentario o con la fiction non importa. Sono due linguaggi che amo e che continuerò ad intrecciare il più possibile giocando lungo il loro instabile confine.