Recensione Fino all'ultimo respiro (1960)

Una delle opere più importanti di Godard, da molti considerato il manifesto della Nouvelle Vague.

Al servizio delle emozioni

Michel Poiccard, un giovane ladro di automobili, è in viaggio verso Parigi per andare a riscuotere una grossa somma di denaro e ritrovare Patricia, una ragazza americana conosciuta poche settimane prima, della quale si è innamorato. Ad un certo punto si imbatte in una volante della polizia che gli intima di fermarsi per aver effettuato un sorpasso dove era vietato. Nella precipitosa fuga che segue il giovane uccide uno dei due poliziotti che lo tallonavano. Da qui prende le mosse una vicenda che mescola un gran numero di elementi filmici e di generi, in maniera assolutamente omogenea ed estremamente innovativa per il periodo.

Jean-Luc Godard firma con quest'opera, il cui soggetto gli venne ceduto da François Truffaut nel 1959, (anno in cui quest'ultimo presentò a Cannes I 400 colpi), una sorta di manifesto della Nouvelle Vague, movimento formato da giovani e promettenti registi francesi, che nacque alla fine degli anni '50 con spirito di contestazione e una forte spinta verso il rinnovamento di quei concetti e messaggi sui quali il cinema del passato si era sterilmente "adagiato". Oltre a ciò, nella pellicola di cui parliamo è facilmente individuabile l'influenza dell'esperienza neorealista italiana e (caratteristica essenziale del movimento di cui l'opera fa parte) il citazionismo nei confronti del cinema stesso, con omaggi in particolare al genere noir americano (diremmo anche di serie B), ai suoi canoni stilistici e, come diretta conseguenza, a tutte le nuove tecniche registiche che li accompagnarono.

La sceneggiatura è molto semplice, quasi un pretesto per inscenare lunghi dialoghi, che risultano invece abbastanza ricercati e mai banali o fine a sè stessi. Per questo il film non è mai ostico e si lascia vedere sempre con grande scorrevolezza.
Il regista, come già accennato in precedenza, fa uso di diversi elementi di rottura rispetto al passato, con una camera instabile, che talvolta fluttua dinanzi ai personaggi, talvolta sclerotizza espressioni pregnanti, le quali assumono una forza ancora maggiore delle parole, assolvendo alla loro funzione di elemento narrativo all'interno di una certa concezione meta-cinematografica in cui il "gesto" cita sè stesso e si ripropone in una forma sempre nuova.

Intense e ricche di sfumature espressive le interpretazioni dei due personaggi principali, Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg, mettono in scena le maschere di due personaggi che sono chiamati a confrontarsi con problematiche legate al ruolo che rivestono nella società ma anche e soprattutto al proprio essere e al rapporto con una società troppo diversa da loro.

Quindi, concludendo, non può che essere positivo il giudizio per questo film che ha segnato un'epoca, rappresentando una sorta di spartiacque nella storia del cinema e uno dei lavori più importanti all'interno della produzione di quelli che in seguito saranno universalmente accettati come grandi maestri, innovatori, pionieri di un nuovo modo di fare arte.