Affamato, folle e anche un po' hippy
Per molti ha rappresentato un esempio da imitare, se non un mito. Forse altrettanti non lo apprezzavano alla stessa maniera, considerandolo un bieco capitalista dai metodi più che opinabili. E' indubbio, però, che la figura di Steve Jobs difficilmente lasciasse indifferenti, così come è indubbio che nessuno come lui sia stato in grado di non solo di influenzare il mondo della tecnologia, ma soprattutto di cambiare radicalmente la nostra esperienza di vita quotidiana. Se si dovesse associare una e una sola parola a Jobs, quella sarebbe "visione". Quello che lo differenziava dagli altri grandi dell'informatica, nel sentimento collettivo, era proprio questo: non la sua capacità di rispondere a delle esigenze, ma il modo in cui, con le proprie innovazioni, riusciva a soddisfare bisogni che ancora non sapevamo di avere, guardando sempre un po' più in là del qui e ora.
E in Steve Jobs: The Lost Interview questa visione si esplicita con cristallina ovvietà: sebbene è probabile che saranno più che altro i fan a voler recuperare questa intervista, ritenuta perduta per quasi due decenni, sono soprattutto i detrattori del fondatore di Apple che beneficerebbero maggiormente del lavoro di Paul Sen. Registrato per il programma televisivo Triumph of the Nerds, questo lungo dialogo tra Jobs e il suo intervistatore Robert X. Cringely avviene in un momento molto particolare della vita del protagonista: siamo nel 1995, e da dieci anni Jobs è stato estromesso da Apple in seguito all'intervento di John Sculley, l'amministratore delegato da lui stesso messo a capo dell'azienda. Nel frattempo Jobs ha fondato NeXT, che nel giro di sei mesi verrà poi rilevata dalla stessa Apple, manovra che aprirà la strada al ricongiungimento tra la mamma del Macintosh e il suo fondatore, e all'exploit definitivo del colosso di Cupertino.
Piuttosto che concentrarsi sulla situazione contingente, di cui Jobs parla con evidente commozione, più per la sorte a cui stava andando incontro Apple che per il proprio personale esilio, Cringely ci riporta agli esordi del giovanissimo Steve nel mondo dell'informatica. E basterebbero i pochi minuti in cui Jobs descrive la prima volta in cui si trovò di fronte a un computer, il periodo in cui progettava e costruiva con Steve Wozniak la blue box (un dispositivo in grado di far telefonare gratuitamente in qualsiasi parte del mondo, sfruttando un errore nella progettazione della rete AT&T), la nascita di Apple I per convincere anche i più scettici che il suo successo non è frutto del caso, della fortuna, dell'opportunità. Certo, ora è impensabile che un dodicenne telefoni al presidente della Hewlett Packard per chiedergli di fornirgli dei pezzi di ricambio, e nemmeno la Silicon Valley è quella degli anni Settanta: ma quello che Jobs aveva di più importante erano la passione, la fiducia nella possibilità di cambiare il mondo in meglio, un'intelligenza frutto, più che della cultura accademica, dell'esperienza reale, della capacità di pensare che fermamente sosteneva gli derivasse dal saper programmare, tanto da affermare che tutti, a scuola, avrebbero dovuto imparare un linguaggio di programmazione. Aldilà delle capacità tecniche, del talento (sfortunatamente non infallibile) nello scegliere i propri collaboratori, quello che emerge con forza da questa intervista è come per Jobs il successo, la ricchezza, fossero un mezzo, più che un fine: un mezzo per realizzare cose nuove e migliori, per non limitarsi alla banalità dei propri concorrenti (Microsoft in primis). Giudicare la bontà di un'idea, le sue potenzialità, secondo il fondatore di Apple era un problema prettamente di gusto: la più grande capacità dell'uomo, nella sua visione, è proprio quella di riconoscere l'esistenza di qualcosa di più bello di quello che già possiede, e di ricercarlo con tutte le proprie forze. In questo senso, nel momento in cui Cringely gli impone di identificarsi in un hippy o in un nerd, propende per la prima risposta: come gli hippy, anche lui per tutta la vita ha sospettato che ci potesse essere qualcosa di più, rispetto al modo in cui avevano vissuto le generazioni precedenti, qualcosa di più del fare il proprio compitino con diligenza, qualcosa di più che ripercorrere sempre gli stessi sentieri, anche se ti hanno portato al successo. Come per un'azienda, anche per l'uomo il pericolo più grande è quello di rimanere ancorato a se stesso, di privilegiare l'orgoglio e l'istinto di sopravvivenza (che, non a caso, era secondo Jobs il più grande pregio di Sculley) alla volontà di andare oltre e dare il massimo. Certo non tutti hanno la sua lungimiranza, quella che gli faceva dire che il futuro dell'informatica era nel web, e come quel momento sarebbe stato il coronamento dei sogni della sua generazione, un momento in cui la tecnologia avrebbe smesso di essere fine a se stessa e sarebbe diventata un modo per comunicare. Ma tutti abbiamo la possibilità di cogliere i suoi suggerimenti: di rifiutare l'ovvio, di non scendere a compromessi, di vivere con la stessa passione, e questa intervista non fa altro che pungolarci perché ciò accada.Movieplayer.it
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