Per gli amanti del cinema, quello di Bertrand Tavernier è senz'altro uno dei nomi ai quali è pressoché impossibile non essere più che affezionati: perché in cinque decenni di attività nel mondo della settima arte, il regista di Lione ci ha regalato un gran numero di pellicole preziose ed affascinanti: film che, pur appartenendo a generi diversissimi fra loro, si rivelano in grado di delineare con formidabile precisione le emozioni di personaggi vividi e appassionanti.
E a Tavernier, ancora attivo sul set a settantaquattro anni di età, il Festival di Venezia ha deciso di attribuire il Leone d'Oro alla carriera della 72° edizione della Mostra, consegnato martedì pomeriggio nella Sala Grande del Lido alla presenza del regista e di una delle sue attrici favorite, la deliziosa Sabine Azéma. Un riconoscimento accompagnato dalla proiezione di uno dei migliori titoli della filmografia di Tavernier, La vita e niente altro: l'ironica e toccante storia del rapporto fra Irène, una donna il cui marito risulta disperso al termine della Prima Guerra Mondiale, e il comandante Delaplane, ufficiale dell'esercito francese. Interpretato dalla Azéma in coppia con Philippe Noiret, La vita e niente altro è stato uno dei maggiori successo di critica e di pubblico di Tavernier e nel 1989 si è aggiudicato il BAFTA Award come miglior film straniero, oltre ad aver fatto conquistare a Noiret lo European Film Award, il David di Donatello e il premio César come miglior attore.
Bertrand Tavernier: un cinema fra emozione e riflessione
Ma La vita e niente altro è solo una delle "punte di diamante" di un itinerario artistico incredibilmente ricco e variegato, tale da aver consacrato Bertrand Tavernier fra i più talentuosi registi europei contemporanei. Fin dal suo apprezzatissimo esordio nel 1974 con L'orologiaio di Saint-Paul, che gli è valso l'Orso d'Argento al Festival di Berlino, Tavernier ha spaziato fra i generi più diversi, dimostrando sempre però un equilibrio e una finezza impeccabili, tanto a livello di scrittura quanto di messa in scena: dagli affreschi storici di Che la festa cominci... (1975), Il giudice e l'assassino (1976) e il successivo Capitan Conan (1996) all'angosciante distopia de La morte in diretta (1980); dal melodramma a tinte noir Colpo di spugna (1981), candidato all'Oscar come miglior film straniero, ai commoventi ritratti familiari di Una domenica in campagna (1984), vincitore del premio per la miglior regia al Festival di Cannes, e Daddy nostalgie (1990); dall'incursione nel mondo del jazz con 'Round Midnight - A mezzanotte circa (1986) all'analisi di una gioventù priva di riferimenti morali ne L'esca (1995), premiato con l'Orso d'Oro al Festival di Berlino; dal poliziesco di produzione americana L'occhio del ciclone - In the Electric Mist (2009) alle più recenti ed applaudite prove, La princesse de Montpensier (2010) e Quai d'Orsay (2013), rimasti purtroppo inediti in Italia. Di seguito, vi proponiamo il resoconto della conferenza stampa di Tavernier a Venezia...
Il Leone d'Oro, il cinema italiano e francese ed Eric Rohmer
Qual è il suo stato d'animo nel ricevere un riconoscimento come il Leone d'Oro alla carriera?
È il maggior riconoscimento che abbia mai ricevuto all'estero, e in un paese con una tradizione cinematografica straordinaria. Non posso certo lamentarmi dei premi ricevuti in Francia, fra cui cinque César e il premio Louis-Dellus, ma sono molto emozionato nel ricevere il Leone d'Oro. L'Italia è il paese di grandi registi come Roberto Rossellini, Federico Fellini, Dino Risi, Ettore Scola e il mio amico Mario Monicelli, con il quale mi incontravo ogni volta che veniva a Parigi; fra l'altro ho trascorso cinque giorni con lui sul set di Amici miei. L'Italia ha contribuito moltissimo al mio amore per il cinema, e vorrei riuscire ad uguagliare i film straordinari di Dino Risi o di Roberto Rossellini.
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Come si è avvicinato al mondo del cinema e quali sono stati i principali incoraggiamenti ricevuti all'inizio della sua carriera?
I miei "genitori del cinema", da ragazzo, sono stati Jean-Pierre Melville e Claude Sautet. Mia madre voleva che studiassi scienze politiche, ma Melville e Sautet hanno parlato con i miei genitori, convincendoli che avevo talento e che avrei dovuto lavorare nel cinema.
Alla luce di una carriera così ricca, come giudica la sua posizione all'interno del cinema francese?
Non saprei cosa rispondere... trascorro talmente tanto tempo a girare film che non mi metto a pensare al mio ruolo nel cinema francese, anzi me ne frego proprio! A tredici anni ho deciso di voler diventare uno sceneggiatore, e nel corso della mia carriera ho realizzato solo i progetti che volevo fare veramente, scegliendo in totale libertà. Lascerò che siano altri ad attribuire definizioni al mio cinema, ma tutto ciò che ho fatto è stato sempre frutto di una mia scelta, senza dover scendere a compromessi.
Cosa si sente di rispondere per contrastare i pregiudizi di una parte del pubblico nei confronti dei film francesi?
Non credo agli stereotipi sul cinema francese. In un vecchio film (Bersaglio di notte di Arthur Penn, ndr), il personaggio di Gene Hackman dichiarava di aver visto un film di Eric Rohmer e che per tutto il tempo non succedeva nulla. Be', chi se ne importa di quello che diceva Gene Hackman... io trovo che i film di Rohmer siano fra i più belli al mondo, e sono film in cui in realtà accadono moltissime cose! Oggi in Francia ci sono registi di grande talento, e al Festival di Venezia quest'anno avete avuto due film francesi bellissimi, Marguerite e L'hermine. Nel nostro cinema, ovviamente, ci sono cose eccezionali e cose bruttissime, ma anche per un solo film bellissimo credo si possano perdonare addirittura quindici film brutti!
La società, la politica e il rapporto con gli attori
A proposito de L'hermine, durante la conferenza stampa a Venezia Fabrice Luchini ha dichiarato che "la Francia è finita": cosa ne pensa?
Conosco Luchini, avevamo iniziato a girare insieme un film sul socialismo, ma purtroppo poi il progetto si è arenato. A proposito dell'attualità del nostro paese, bisogna capire che esistono due piani differenti: c'è la Francia della classe politica, in cui la situazione è terribile, e poi c'è la gente comune. Si tratta di una Francia di cui i media non parlano quasi mai, ma sono le stesse persone che, in piccoli paesi di provincia, hanno creato centri di accoglienza per i migranti. Le lezioni di educazione civica non dovrebbero impartirle solo a scuola, ma anche a coloro che ci governano: in Francia, così come in altri paesi dell'Unione Europea.
Parlando di temi sociali, le capita mai di ispirarsi all'attualità per scrivere un film?
Quando scrivo un film non penso mai ai temi sociali, ma penso invece ai personaggi e alle loro emozioni. La situazione sociale non è un argomento da film, ma può essere raccontata attraverso le vicende dei personaggi. La vita e niente altro, ad esempio, vede protagonista una giovane donna alla ricerca del marito disperso durante la guerra: quello sì che è un tema da film! La vita e niente altro è considerata una delle pellicole più corrette dal punto di vista storico in relazione alla Prima Guerra Mondiale: del resto, una parte della storia francese purtroppo è stata occultata, e molti caduti dimenticati e cancellati dalla memoria collettiva. Un altro mio film invece, Legge 627, si dimostra ancora oggi attualissimo a proposito dei problemi nel corpo della polizia, che da allora sono andati via via peggiorando.
Può raccontarci qualcosa su due attori simbolo del suo cinema, Philippe Noiret e Jean Rochefort?
Io ho esordito come regista grazie a Philippe Noiret, che mi ha accolto quando ero un ragazzo di appena ventinove anni e mi ha detto "Interpreterò il tuo film" (L'orologiaio di Saint-Paul, ndr), anche andando contro il parere dei produttori. Abbiamo avuto grandi difficoltà a reperire i finanziamenti, ma lui ha tenuto duro ed è sempre rimasto al mio fianco. In seguito gli ho chiesto: "Come mai hai resistito per tre anni di attesa?", e lui mi ha risposto: "Ti avevo dato la mia parola". Philippe Noiret era un vero signore e una persona gentilissima, un uomo con il quale mi sono divertito alla follia. Aveva una salute instabile e quindi spesso aveva difficoltà a camminare, ma ciò non gli ha impedito di lavorare in teatro e di correre letteralmente sulla scena. Ero sempre felice di trovarmi con lui sul set... per me era come un fratello maggiore, e mi ha dato tantissimi consigli.
Senza Philippe e senza Jean Rochefort non sarei mai riuscito a realizzare L'orologiaio di Saint-Paul. Con Jean Rochefort mi ero incontrato a pranzo a Parigi per proporgli il ruolo e per consegnargli la sceneggiatura... dopo appena un'ora e mezza, subito dopo aver letto il copione, mi ha telefonato ed ha accettato di girare il film, dicendomi: "Nella vita, non capita due volte di leggere una sceneggiatura così bella". Jean ha un grande senso dell'umorismo, e una volta mi ha detto che sono stato io a insegnargli a "dare del tu" alla macchina da presa, ad amare davvero il cinema.