Scatti di morte, ragione di vita
Il Bang-Bang Club, così i colleghi e i giornalisti amavano definire i quattro fotografi temerari, Greg Marinovich, Kevin Carter, Ken Oosterbroek e Joao Silva, che all'inizio degli anni '90 in Sudafrica fondarono un team per portare a termine quella che ritenevano essere la loro missione. Documentare l'apartheid, la povertà, gli scontri che contraddistinsero gli ultimi giorni del regime dei bianchi e quelli che seguirono la liberazione di Nelson Mandela, ma soprattutto i sanguinosi mesi di guerre tra fazioni tribali per le strade di Soweto, alcune di esse appoggiate dal governo bianco e dalla stessa polizia, fino a giungere al 18 aprile del 1994, giorno delle prime elezioni democratiche, senza distinzioni di colore, classe sociale ed età. Pensavano di essere invincibili, qualcuno li considerava addirittura dei 'fortunati' ad essersi trovati spesso nel posto giusto al momento giusto, fortunati ad aver schivato una coltellata o un colpo di fucile per catturare un'immagine di morte, fortunati ad essere nati con la pelle bianca, perchè si sa, un fotografo nero avrebbe avuto vita impossibile in mezzo a quel caos fuori controllo. Se sei nero c'è sempre qualcuno che ti vuole morto, da una parte o dall'altra, e hai poche speranze di cavartela.
Ad aiutare i quattro la photo-editor Robin, una donna che fece loro da chioccia, che li difese dall'attacco delle autorità sudafricane e che fece arrivare le loro foto su tutte le pagine dei giornali del mondo.
Tutto filò liscio o quasi fino a quel 18 aprile 1994, che diede inizio ad una nuova era per il paese. Mentre i quattro moschettieri dell'obiettivo documentavano con coraggio le violenze nell'ostello dei lavoratori di Thokoza, Ken Oosterbroek venne ucciso durante lo scontro a fuoco tra gli abitanti e le forze di pace. Greg Marinovich (vincitore come il collega Carter del premio Pulitzer per uno scatto di guerra rimasto nella storia) rimase ferito nello stesso scontro ma se la cavò con qualche mese di riabilitazione. Due mesi dopo Kevin Carter si tolse la vita a causa della depressione.
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La formazione e l'esperienza documentaristica di Steven Silver, qui al suo esordio nel lungometraggio, l'hanno costretto ad un lavoro certosino per riuscire a conciliare l'istinto giornalistico con quello registico, perchè quando si racconta una storia come questa che parla di fatti realmente accaduti e di persone reali, bisogna mettersi al servizio di due padroni: si è obbligati a rimanere il più possibili ancorati alla verità e al contempo ad accontentare chi si reca in sala per gustarsi uno show in grado di appassionare, emozionare e di far riflettere, uno spettacolo che sappia coinvolgere e farsi ricordare insomma.
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Due cose sembra non perdere mai di vista Silver, la prima che nella mente del popolo africano che vive ancora in quei posti i ricordi sono ancora vividi e le ferite ancora dannatamente aperte, e che per rendere veramente speciale una foto (e anche un film, talvolta) è la capacità di suscitare domande.
Movieplayer.it
3.0/5