All'ombra della scrittura
L'immagine più emblematica e affascinante di The Ghost Writer (che sarà distribuito in Italia con il titolo L'uomo nell'ombra) si trova proprio nell'inquadratura finale: un mucchio di fogli svolazzanti, gli unici in grado di rivelare le trame complottiste che legano un ex primo ministro britannico con alcune operazioni di tortura condotte dalla CIA, si sparpagliano nella stessa strada dove era cominciata l'avventura del ghostwriter Ewan McGregor, assoldato dall'ex premier Adam Lang (Pierce Brosnan) per ultimare le sue memorie. Senza rivelare troppo sul colpo di scena finale di questo intrigo spionistico - che ricorda da vicino la lezione hitchcockiana (tanto cara al cinema di Polanski) dell'uomo qualunque catapultato per caso in una situazione più grande di lui - basta dire soltanto che la soluzione dell'enigma si trova nella scrittura, ed è lì che finisce per rimanere. Come a dire che il ghost writer (termine inequivocabilmente evocativo) è appunto una mera presenza fantasmatica. Il povero Ewan McGregor, infatti, è soltanto una semplice pedina che ha preso il posto del suo predecessore (dichiarato morto in un incidente) e che finisce per ripetere meccanicamente quanto gli suggeriscono le tracce scritte che trova disseminate sul suo percorso.
L'adattamento cinematografico del best seller di Robert Harris (qui anche collaboratore alla sceneggiatura), con il quale Roman Polanski torna alle consuete atmosfere del thriller dopo una pausa di oltre vent'anni, è quasi una manifestazione del potere intrinseco della scrittura (e quindi della sceneggiatura cinematografica), che finisce per attirare a sé e per catturare l'incauto protagonista (e di riflesso lo spettatore). Ed è curioso notare non poche similitudini e ricorrenze tra questa ultima fatica che Polanski ha completato nel suo forzato esilio svizzero e Shutter Island di Martin Scorsese, che sarà presentato anch'esso tra pochi giorni al Festival di Berlino. Si tratta in entrambi i casi di opere dall'atmosfera oscura e quasi allucinatoria, come se i protagonisti di L'uomo nell'ombra e di Shutter Island vivessero una sorta di incubo a occhi aperti. E si tratta di film in cui la condizione angosciosa vissuta dai protagonisti è come incorniciata da spazi e ambienti che simboleggiano la sensazione di prigionia: non a caso entrambi i film sono ambientati in isole remote, su cui imperversa una natura ostile e minacciosa. Il film di Roman Polanski tuttavia mantiene per certi versi un'impostazione maggiormente ancorata al genere di appartenenza, giocando in maniera più tradizionale con le consuetudini del thriller. Non è di certo un approccio innovativo alla materia trattata; eppure rappresenta lo stesso di un gradito ritorno ai toni delle origini. Dopo aver intrapreso la via del cinema più classicheggiante e letterario - con gli adattamenti de Il pianista e di Oliver Twist - Polanski "ritorna in sé" riprendendo alcuni stilemi classici del suo cinema: incubi kafkiani, conditi però da succulente dosi di umorismo nero (in questo caso molto british) e da personaggi sardonici e grotteschi (tra cui spiccano i cammei di Eli Wallach e James Belushi). Proprio come nel caso dell'ultimo Scorsese, anche Polanski con L'uomo nell'ombra riesce a confezionare un blockbuster rivolto in prevalenza al pubblico mainstream, senza però rinunciare a instillare gocce della sua poetica personale.