La bellezza turba gli animi
Dal mito di Tristano e Isotta di Richard Wagner al melò classico da riabilitare che guarda a Douglas Sirk e al suo "allievo" Fassbinder: punta in alto Marco Filiberti con la sua seconda opera, sei anni dopo Poco più di un anno fa - Diario di un pornodivo che così poco aveva convinto, procedendo per citazioni e rimandi, ma tentando nello stesso tempo di parlare un linguaggio personale rispolverando un genere ormai osboleto. Il melodramma, questa strana forma che tende alla lacrime, che si compiace della tragedia e punta all'esasperazione dei sentimenti, trova nuova voce ne Il compleanno, tra i film di Controcampo italiano a Venezia 66. Filiberti la utilizza per parlare di un mondo borghese pronto a disgregarsi di fronte a un elemento 'sconvolgente' che ne riveli le fragili fondamenta su cui si è sviluppata la sua finzione. Si tratta in questo caso della bellezza, che ha il fascino ambiguo della gioventù e dei muscoli scolpiti pronti a risvegliare identità messe a tacere per troppo tempo, in una cornice che esercita sugli stessi soggetti un fascino che si limita a scombussolare.
Film corale in cui i personaggi fanno a gara nel comportamento più fastidioso, Il compleanno mette insieme due coppie di amici e sposi, una in uno stato di calma apparente, l'altra ormai già bruciata, mandandoli in vacanza a Sabaudia in una villa che ne ospiterà battaglie, giochi di nervi e catastrofi. A turbare gli animi, dando il via a un processo di isterismo collettivo, l'arrivo di un giovane (che daremo qui per buono come straordinariamente bello) che farà perdere la testa a quello che sembrava l'uomo più equilibrato del gruppo, uno psicanalista un po' altezzoso ma marito e padre amorevole costretto a fare i conti con un desiderio che non può essere più tenuto a freno. L'autoerotismo di cui abbonda il film (vorrei ma non posso) va ben oltre un mero piano fisico, coinvolgendo le "brillanti" menti degli attori in causa: chiacchiere puerili, staffilate gratuite e contraddittorie alla povera Italietta, strazi intimi di chi sotto la maschera sente gonfiarsi a dismisura le proprie pulsioni. Lungi dal subire la fascinazione del Teorema pasoliniano, Filiberti confeziona un'opera pervasa da una costante tensione omoerotica e da un gusto snobisticamente kitsch che fanno perdere di vista la complessità di una storia in cui le numerose forze centrifughe in ballo spingono verso direzioni così diverse che è difficile non rimanerne disorientati. Incantato egli stesso dal suo giovane protagonista, l'esordiente Thyago Alves, il regista va alla perenne ricerca del suo corpo, indugiando in particolari che ne esaltano la bellezza e il suo presunto fascino seduttivo. Non importa la consapevolezza che questi (intendendo qui il personaggio) ha di quello che sta provocando attorno a lui o anche del suo stesso orientamento sessuale. Perché la sua funzione è limitata a una catastrofe, quel che sarà dopo e quel che gli è dentro non gli competono. Si rivela così la superficialità con la quale è trattato il risvolto omosessuale della vicenda: essere gay resta una questione d'attrazione fisica, di una pulsione radicata in profondità si parla solo in termini di colpa, vergogna e dolore. E non è un caso che la tragedia si consumi proprio mentre trova finalmente sfogo questo mero desiderio di possessione fisica dell'altro, con una punizione servita senza possibilità di catarsi. Altro crimine dell'omosessualità è quello di aver ucciso l'innocenza? Suvvia. Qualche vaga intuizione si intravvede invece a livello estetico, come il continuo dialogo tra terra e cielo che sembra tradire una forte spiritualità del regista, ma i maestri restano irraggiungibili. Il risultato è un tragico compleanno ricco di mugugni e pruriti; c'è ben poco da festeggiare.