Recensione Il grande silenzio (2005)

Groning si ostina a volerci offrire quest'illusione di realtà pura (ma il montaggio e i succitati primi piani ci mettono un niente a spezzarla), ci fa entrare nel monastero, ma non dentro i suoi abitanti.

Vite senza voce

In un monastero non si sente altro che silenzio e preghiere. Philip Gröning, quarantaseienne regista di Dusseldorf, aveva un sogno: entrare nella Grande Chartreuse, storico monastero certosino arroccato sulle Alpi francesi, e filmarne il silenzio, il tempo che passa, il lavoro e le preghiere dei monaci. Ci sono voluti vent'anni per realizzarlo e quando finalmente gli sono state aperte le porte, Groning ha voluto abitare una cella identica a quella di qualsiasi altro certosino, per condividere a pieno la loro vita, filmando, nell'arco di quattro mesi, tutto quello che gli accadeva intorno, dentro e fuori le mura. Il risultato è un documentario di due ore e quaranta minuti (ma il totale filmato era addirittura di 120 ore) che ha come protagonista assoluto il silenzio. Niente musica, interviste o voci off a commentare, ma pura contemplazione della quotidianità di uomini che hanno abbandonato tutto per abbandonarsi a Dio.

La vita dei monaci non conosce sorprese: la loro è una continua ripetizione di preghiere, gesti abituali, pagine e pagine di testi sacri da assorbire. Le giornate sono scandite dal suono delle campane e anche le notti seguono un ritmo preciso: tre ore di sonno, interrotte da due o tre ore di preghiere, e ancora tre ore di sonno. Tutto è silenzio e nel film tale dimensione è ben restituita: ad interrompere questa pace assoluta sono soltanto i canti liturgici, i rintocchi delle campane, i passi dei monaci sulla terra e il rumore muto della neve che cade. Gli unici momenti in cui i monaci possono parlarsi sono le riunioni settimanali e le passeggiate domenicali e la sola conversazione di cui il film fornisce testimonianza è su quanto sia utile lavarsi le mani prima dei pasti (sic). Per il resto, ne Il grande silenzio non accade assolutamente nulla e la sua ragguardevole durata serve al regista unicamente per dar conto della ripetizione sulla quale si fonda la vita di questi monaci. Così, il film è un susseguirsi di immagini e sensazioni sempre uguali: i monaci in preghiera, i piccoli gesti quotidiani, il cielo in continuo mutamento e la successione delle stagioni. Inoltre, lungo tutta la sua durata, sono disseminate didascalie ripetutamente identiche che riportano alcuni brevi passi dei testi sacri, quali "Solo se ti spoglierai di tutti i tuoi averi potrai essere mio discepolo" e "Tu mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre", e primi piani che incorniciano gli occhi dei monaci protagonisti che guardano in macchina palesemente a disagio.

L'interesse verso questa "contemplazione del silenzio" dura ben poco, soprattutto per lo spettatore che non riesce a lasciarsi affascinare dalla conduzione di una vita totalmente votata a Dio. Groning si ostina a volerci offrire quest'illusione di realtà pura (ma il montaggio e i succitati primi piani ci mettono un niente a spezzarla), ci fa entrare nel monastero, ma non dentro i suoi abitanti. Solo alla fine uno dei monaci, un non vedente fermamente convinto che Dio gli abbia rubato la vista per fargli un favore (sic), parlerà, rivolgendosi evidentemente allo spettatore, per offrirci la solita, insostenibile tiritera cattolica su come la vita abbia perso significato da quando l'uomo si è allontanato da Dio e su quanto sia importante ritrovarlo per ritrovarsi. Chi ha difficoltà a rapportarsi al silenzio troverà questo film abbastanza inquietante, oltre che logicamente estenuante, anche perché in certi momenti si è completamente immersi in una oscurità claustrofobica (nel film non si fa alcun ricorso a luci artificiali) rotta solo dalla flebile fiamma di un lumino rosso e chi avrà la pazienza di arrivare sino alla fine potrà forse dire di aver fatto un'esperienza davvero fuori dal mondo reale.