Recensione Peacock (2004)

Ottimo esordio alla regia per Gu Changwei, in passato apprezzato direttore della fotografia, con una pellicola elegante e intensa.

Una difficile adolescenza cinese

La storia di una famiglia cinese come tante, nel periodo successivo alla rivoluzione culturale, narrata dalle diverse prospettive di tre fratelli molto dissimili tra loro: il primogenito è un ragazzone soprappeso e affetto da handicap, per di più innamorato di una ragazza bella e popolare e vittima di scherzi e angherie da parte dei coetanei, nonché causa di imbarazzo per il fratello minore, che arriva a fingere di non conoscerlo davanti ai compagni di classe, a malmenarlo e perfino a tentare di ucciderlo con del veleno. Tra i due la sorella, una giovane ribelle e sognatrice che si innamora di un paracadutista e tenta di arruolarsi nell'esercito senza successo. I sogni e i desideri dei tre finiranno, seppure in maniera differente, con lo scontrarsi non solo con la realtà della Cina degli anni '70, ma anche con una situazione familiare dura e repressiva.

Esordio estremamente positivo e fortunato quello di Gu Changwei, in passato acclamato direttore della fotografia per opere quali Addio mia concubina e Sorgo rosso, e oggi, dopo un Orso d'Argento conquistato allo scorso festival di Berlino e ottimi risultati in patria, regista di Peacock (in originale Kong que, letteralmente Il pavone).
Il suo film è innanzitutto, e come giustamente ci si aspettava, una delizia per gli occhi con sequenze estremamente suggestive per la loro bellezza (la corsa in bici con il paracadute) o per la loro tragicità (il tentato fratricidio e la dimostrazione da parte della madre dell'effetto del veleno cui è scampato il figlio su uno splendido cigno) ma mai freddo o di maniera: con l'avanzare del racconto, l'estetica del film muta, si fa meno solare, evolve in maniera sottile e "naturale", assicurando una coerenza stilistica che rispecchia quella narrativa.

Non tre storie quindi, ma un unico, denso, drammatico ritratto di un'adolescenza non facile e fondamentalmente infelice, raccontato da tre punti di vista diversi da ciascuno dei protagonisti (prima la ragazza, poi il fratello maggiore e infine quello minore) senza che gli altri due fratelli siano mai messi in disparte, così da avere tre ripartenze che non solo non si sovrappongono mai, ma anzi si completano vicendevolmente. Soltanto alla fine quindi avremo uno sguardo d'insieme della vicenda dei tre fratelli, così come soltanto alla fine incontreremo il pavone che dà il titolo al film, e sarà solo alla macchina presa che mostrerà la sua splendida ruota, non ai protagonisti che avranno inutilmente atteso questo gesto: se la ruota del pavone rappresenta in Cina la fortuna così come la bellezza, è ormai evidente all'occhio della spettatore che ai tre fratelli non è dato di vederla.
Ma nonostante tutto la vita va avanti, con le sue piccole e grandi difficoltà, ed è questo che il figlio minore, voce narrante dell'intera pellicola, ci lascia intendere nel finale, annunciandoci, lieto, la morte del padre che aveva afflitto la sua esistenza e la tanto attesa fine di un'adolescenza tutt'altro che felice.

Movieplayer.it

4.0/5