Far East Film Festival 2005

Un'edizione, questa del 2005 del Far East di Udine, in cui la quantità delle proposte ha superato complessivamente la qualità, complice il chiudersi su sé stesse di alcune realtà come quella coreana: nonostante questo, gli ottimi film non sono mancati, e l'organizzazione è stata come sempre impeccabile.

Si è conclusa venerdì, con un Audience Award che ha riservato qualche sorpresa rispetto a quelle che erano le aspettative, la settima edizione del Far East Film Festival, manifestazione che ogni anno, a Udine, attrae una folta schiera di appassionati, italiani e non, del cinema del sud-est asiatico: un cinema che negli ultimi anni ha iniziato ad affacciarsi, in parte, sui nostri schermi, ma di cui lo spettatore medio ha ancora oggi una visione parziale, limitata ad alcuni generi e filoni, forzatamente ridotta quando non distorta. Le cause di questa errata percezione vanno ricercate innanzitutto in logiche di distribuzione i cui criteri sono spesso discutibili, che "selezionano" prodotti non sempre rappresentativi delle rispettive cinematografie, e che comunque finiscono per restituire dei vari filoni cinematografici un'immagine riduttiva: così, in quest'ottica, vengono distribuiti in pompa magna i comunque ottimi wuxia di Zhang Yimou, ma viene parallelamente relegato alla programmazione estiva (o almeno così pare) un attesissimo kolossal come Seven Swords di Tsui Hark (gigante del genere da sempre ignorato dalla nostra distribuzione); si affacciano sui nostri schermi, con buoni risultati, i film d'autore di Kim Ki-duk, ma a rappresentare il cinema coreano di genere viene lasciato un prodotto certo non eccelso come Sword in the Moon; la "ringumania" dilaga nelle nostre sale con i vari The Eye, Phone, The Call - Non rispondere e l'infinita serie di sequel, remake, sequel di remake e quant'altro queste pellicole hanno generato, ma si ignora che Takashi Miike, prima di dirigere il suo film sul cellulare assassino, ha girato qualcosa come sessanta pellicole dei più svariati generi, mentre un gigante del cinema nipponico come Kiyoshi Kurosawa, che da sempre fornisce la sua personale visione, originale e riconducibile a una precisa poetica, delle ghost story giapponesi, viene sistematicamente snobbato persino dal mercato dell'home video.

In questo senso, una manifestazione come quella di Udine si propone da sempre lo scopo di riequilibrare le cose, di mostrare che il cinema orientale è anche altro, che c'è una realtà "di genere" proveniente dall'estremo oriente, vitale e produttivamente imponente, di cui gli spettatori occidentali non hanno spesso percezione; una realtà che, per dimensioni e riscontro di pubblico, può tranquillamente competere, quando non superare, quella a noi ben più nota di marca hollywoodiana. E' questa ricerca del "terzo polo" tra il cinema mainstream statunitense e quello "da festival" europeo la cifra distintiva più caratterizzante del Far East, dunque; un intento che, negli anni, non ha tuttavia potuto evitare di fare i conti con la diffusione di opere più ricercate, schematicamente riconducibili ad un universo "d'autore", che all'interno del cinema orientale si sono tuttavia ritagliate uno spazio (anche commerciale) molto importante. Un processo in pieno corso, di cui si erano avute le avvisaglie già nella passata edizione, e che prosegue in questa settima edizione del Far East, in cui, ad un Horror Day che ha lasciato perplessi molti spettatori, e alla prevedibile selezione di noir e commedie provenienti da Hong Kong e Corea, si è affiancata la presentazione di film come i cinesi Peacock (vincitore un po' a sorpresa, ma sicuramente con merito, del premio del pubblico) e Letter from an unknown woman, il coreano Someone special o il giapponese Crying out love, in the center of the world.

La kermesse di Udine, quest'anno, ha presentato la novità dello "sdoppiamento" in due sale: alla storica sede del Teatro Nuovo, che ogni anno si trasforma in un'enorme sala cinematografica, spazio più che mai adeguato per accogliere il nutrito pubblico della manifestazione, si è affiancato il cinema Visionario, di recente restauro, che è servito soprattutto da sede per la principale retrospettiva presentata in quest'edizione del Far East: quella dedicata alla Nikkatsu Action, la storica casa di produzione giapponese che negli anni '50 e '60 produsse diverse centinaia di film, dei più svariati generi (commedie, noir, film di samurai...), con ritmi di produzione mostruosi che tuttavia, come accade nel miglior cinema popolare, non nuocevano complessivamente alla qualità del prodotto. La selezione Nikkatsu presentata a Udine ha proposto sedici film, di qualità mai meno che buona: si va da noir come Red Quay e Rusty Knife ai singolari eastern western (pellicole che richiamano in tutto e per tutto i contemporanei western americani, ambientati però in terra nipponica) Plains Wanderer e Fast-draw Guy, fino a geniali ibridi come il divertentissimo Black Tight Killers, che presenta un'estetica pop che richiama addirittura il Mario Bava di Diabolik. Una rassegna di grande valore, questa dedicata alla Nikkatsu, presentata in copie sempre di ottimo livello (a volte addirittura stupefacenti considerata l'età media dei film); una retrospettiva che se da una parte si è spesso, inevitabilmente, posta in "competizione" con le proiezioni mattutine dei film in concorso (presentati al Teatro Nuovo), dall'altro ha indubbiamente rappresentato un "valore aggiunto" per l'edizione di quest'anno, come fu l'anno scorso per la retrospettiva dedicata al regista hongkonghese Chor Yuen.

L'altro importante "percorso tematico" voluto quest'anno dagli organizzatori del Far East è stato quello dedicato ai direttori della fotografia: si sono esaminati in particolare i lavori di tre importanti nomi appartenenti a questo campo, ovvero il coreano Kim Hyung-koo, il cinese Gu Changwei e il giapponese Masaki Tamura. Abbiamo così potuto vedere, in questa sezione, il magistrale thriller Memories of Murder e il dramma Peppermint Candy (fotografati da Kim), il cult Lady Snowblood (presentato in un'altra splendida copia restaurata, con l'unico neo dei sottotitoli in tedesco non segnalati, che hanno costretto molti spettatori a ricorrere alle cuffie con traduzione simultanea) e il dramma nipponico Desert Moon, fotografati entrambi da Tamura, e infine due esempi di cinema cinese "classico" come Sorgo rosso e Addio mia concubina, con la fotografia ad opera di Gu.

Passando ad esaminare la proposta dei film recenti, quelli che concorrevano per l'Audience Award, non si può non notare, innanzitutto, una prevalenza numerica (seppur leggera) di pellicole coreane, dato che conferma il buon stato di salute produttivo per quella cinematografia. Una proposta invero qualitativamente altalenante, che ha alternato opere di genere (l'action movie Arahan di Ryu Seung-wan, la divertente parodia To catch a Virgin Ghost di Shin Jung-won) ad altre maggiormente ricercate (almeno nelle intenzioni degli autori) e "da festival": per quest'ultima categoria di pellicole, si può dire che se un melò "classico" ma ben confezionato come A family di Lee Jeong-cheol riesce a coinvolgere, seppure in modo molto semplice, decisamente più pretestuoso e "costruito" appare un dramma come Road, diretto da Bae Chang-ho, poco convincente nel narrare le vicende di un protagonista contro il quale la vita sembra essersi accanita ben più del necessario (almeno cinematograficamente parlando). Una menzione particolare la merita il divertente e intelligente Someone special di Jang Jin, atipica commedia romantica coreana che si è guadagnata un meritato terzo posto tra i film scelti dal pubblico; poco interessante e impregnato di provocazione studiata a tavolino è apparso invece Green Chair, commedia erotica che ha strappato a tratti risate fragorose alla platea del Teatro Nuovo (peccato che non fosse evidentemente quella la reazione voluta dal regista Park Chul-soo).

Passando alla proposta di marca hongkonghese, c'è innanzitutto da rallegrarsi per la buona qualità globale della selezione presentata, "indice" di un inizio di ripresa rispetto alle ultime, deludenti stagioni del cinema cantonese, che non può che far felice gli appassionati di questa cinematografia. I tre attesi noir in programma, tutti e tre grandi successi nella ex-colonia britannica nel 2004 (parliamo di One Nite in Mongkok di Derek Yee, Explosive City di Sam Leong e Love Battlefield di Cheang Pou-Soi) non hanno deluso le aspettative, affiancandosi al riuscito e intelligente Beyond our Ken di Ping Ho Cheung (presente anche con la commedia A.V.), divertente excursus sull'amicizia tra due donne innamorate dello stesso uomo, e alla commedia poliziesca Crazy N' the City di James Yuen, che getta un insolito sguardo sulla routine della vita dei poliziotti hongkonghesi, con una leggerezza di tocco che non gli fa perdere tuttavia credibilità e profondità. Un cenno lo meritano anche la curiosa commedia fantascientifica Hidden Heroes e il film animato Mcdull, Price de la Bun, seguito delle avventure del maialino più famoso tra i bambini di Hong Kong; delude un po', invero, l'ormai penultimo lavoro di Johnny To, Yesterday once more, commedia "alimentare" in cui il regista sembra essere il primo a non credere, e il cui principale motivo di interesse sono i dieci minuti girati nel capoluogo friulano, "omaggio" che il regista ha voluto rendere al festival che forse più di tutti ha contribuito a lanciarlo.

Parlando della selezione proveniente dalla Cina continentale, non si può non citare il meritato vincitore del premio del pubblico, ovvero Peacock di Gu Changwei, straziante parabola sulla vita di una famiglia cinese negli anni conclusivi della Rivoluzione Culturale; già presentato con successo a Berlino, il film ha riscosso l'inaspettato favore da parte di un pubblico in genere un po' diffidente verso i film più prettamente "d'autore". Un altro ottimo risultato (quarto posto, staccato di pochissimo dal terzo gradino del podio) è stato ottenuto da un'altra opera di gran livello, quel Letter from an unknown woman che la regista-attrice Xu Jinglei ha scritto e diretto riadattando un romanzo austriaco che fu già portato sullo schermo dal grande Max Ophuls. Complessivamente interessante si rivela anche il fantascientifico Last Level di Wang Jing, storia di realtà concrete e virtuali che si intrecciano inestricabilmente, mentre non convince del tutto il blockbuster A World without Thieves di Feng Xiaogang, che cerca di ricalcare, senza riuscirci come vorrebbe, l'estetica e la commistione di generi del cinema di Hong Kong degli anni '90.

La proposta giapponese è stata più che mai varia, in quanto a generi e a qualità delle pellicole presentate: dei due horror presenti nel programma parleremo in separata sede, mentre qui sono almeno da ricordare il secondo classificato dell'Audience Award, ovvero il divertente, intelligente e visivamente irresistibile Kamikaze Girls di Tetsuya Nakashima, coloratissima commedia su un'improbabile (e per questo tanto più coinvolgente) amicizia tra due ragazze agli antipodi, e (in negativo) il fanta-bellico Lorelei: The Witch of the Pacific Ocean, blockbuster su un leggendario sommergibile che avrebbe operato nella Seconda Guerra Mondiale: buttando nel calderone una serie di confuse scene d'azione e dei personaggi stereotipati, il regista Shinji Higuchi prende il peggio del peggior cinema d'azione americano e lo trasporta in terra nipponica, confezionando un film noioso e assolutamente privo di credibilità. La vocazione classica del cinema giapponese riemerge con Crying out love, in the center of the world, dramma romantico un po' prolisso, che ha tuttavia ottenuto un grande successo ai botteghini nel 2004, e con Ichigo.Chips, intensa storia di amore e amicizia con protagonista un'autrice di fumetti in crisi.

La Thailandia ha offerto il suo contributo con l'action-movie a base di arti marziali Born to fight, diretto da quel Panna Rittikrai di cui avevamo potuto vedere, sui nostri schermi, il precedente Ong-bak - Nato per combattere, con il folle Pattaya Maniac di Yuthlert Sippapak e con il singolare Zee-Oui - The Man Eater di Nida Sutat na Ayuthaya e Buranee Ratchaibul, storia reale di un cannibale malato di tubercolosi, tra horror exploitation e qualche pretesa di denuncia sociale. Dalle Filippine sono arrivati invece la commedia demenziale Mr Suave di Joyce E. Bernal e l'horror Pasiyam di Erik Matti (regista che rappresenta ormai una presenza costante al Far East), entrambi pellicole a basso costo e senza troppe pretese.

Abbiamo lasciato volutamente fuori da questo sguardo a 360 gradi sulla kermesse friulana i film proiettati il 27 aprile, che sono andati a comporre il programma dell'atteso Horror Day: una giornata che godeva di aspettative molto alte da parte del pubblico di Udine, considerata anche la sua assenza dalla passata edizione, ma che ha finito per risultare abbastanza deludente, proponendo una selezione di film che non hanno brillato per originalità, denunciando una sostanziale stagnazione del filone ormai definito ringumania. Se One missed call 2 risulta essere una sbiadita copia del suo predecessore, avendo del tutto perso il tocco geniale e destrutturante di un regista come Takashi Miike, le cose non vanno molto meglio con il filippino Feng Shui di Chito S. Rono, visivamente curato ma eccessivamente convenzionale nello script, con il bellico-orrorifico R-point, poco originale debutto del regista coreano Kong Soo-chang, e con Suffocation di Zhang Bingjian, primo esempio di horror proveniente dalla Cina continentale, che soffre di un'eccessiva e spesso gratuita componente estetizzante. Più originale si rivela essere invece Pontianak - Scent of the Tuber Rose di Shuhaimi Baba, primo film malese presentato a Udine, che rielabora una leggenda popolare della tradizione malese, quella della pontianak, una sorta di vampiro collegato alle morti per parto.

La cerimonia dell'Audience Award, alla presenza della presidente del Centro Espressioni Cinematografiche Sabrina Baracetti, ha chiuso un festival in cui la quantità delle proposte (complice lo sdoppiamento delle sedi) ha superato complessivamente la qualità: questo non è imputabile, è bene dirlo, a demeriti dell'organizzazione (che è stata al contrario, come sempre, impeccabile) ma a una contingenza storica particolare, che ha mostrato da un lato il netto recupero di una cinematografia "popolare" per eccellenza come quella di Hong Kong, e dall'altro il chiudersi su sé stesse di altre realtà come quella coreana, la cui proposta inizia a essere governata, in parte, da logiche analoghe a quelle hollywoodiane. Ricorderemo comunque, di questa edizione, l'ottima retrospettiva dedicata alla Nikkatsu, altro recupero fondamentale per creare una "memoria storica" nel bagaglio degli appassionati occidentali, i fiammeggianti noir hongkonghesi, la bellezza di Peacock e Letter from an unknown woman, la fantasia di Kamikaze Girls e soprattutto l'intelligenza di un pubblico che ha dimostrato di non avere "steccati" o "filtri" particolari attraverso i quali giudicare i film: per un festival specializzato, ma di dimensioni più che ragguardevoli e in continua evoluzione come quello di Udine, questo rappresenta un "valore aggiunto" senza dubbio importantissimo.