Recensione Ride: essere felici per una lacrima

La recensione di Ride: l'esordio alla regia di Valerio Mastandrea racconta l'elaborazione del lutto con un tatto personale che può accogliere o respingere.

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Ogni definizione di lutto è un piccolo atto di presunzione. "Lutto" è una parola che racchiude tante, troppe cose. Una parola da usare con cura, da maneggiare con i guanti. Perché il dolore è un canovaccio instabile e irrequieto, che non dovrebbe conoscere sceneggiature rigide, tempi e battute prestabilite. Il dolore dovrebbe sentirsi libero di manifestarsi come meglio crede senza sentirsi in dovere di qualcosa, senza dover rispettare aspettative, abitudini, riti socialmente accettabili. Eppure, Ride è qui a ricordarci che una burocrazia del dolore esiste eccome. L'atteso esordio alla regia di Valerio Mastandrea è un film che affonda le sue radici sul senso di colpa dei vivi che non riescono a versare lacrime.

È quello che succede a Carolina, giovane madre diventata vedova, incapace di abbracciare quel dolore canonico che la norma vorrebbe da lei. Dedicato a una inusuale elaborazione del lutto, Ride è un esordio coraggioso e sentito, paradossale sin dal titolo che stride volutamente con il tema drammatico al centro della storia. Un esordio figlio di un bisogno, di un'esigenza. Come se il cinema fosse il terreno ideale per sublimare una vorace personale aperta dentro Valerio Mastandrea. Forse è un caso, o forse no, ma fa riflettere che l'attore italiano abbia co-sceneggiato La profezia dell'armadillo, un altro film che affronta il tema del lutto con piglio tragicomico. Senza mai toccare le esasperazioni più marcate del fumetto di Zerocalcare, Ride guarda in faccia il dolore da più punti.

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Ride: Valerio Mastandrea al lavoro sul set del film

Prima lo sfida con ironia, poi se ne distacca e infine ci fa irrimediabilmente i conti. Accade tutto in un film in cui emerge forte una visione d'autore chiara e forte, un'esigenza personale di carezze e pugni nello stomaco. Ride è un'opera prima imperfetta ma audace, perché non ha paura di trattare il dolore in maniera agrodolce. Il che può accogliere o respingere. Nel dubbio, sappiamo che Valerio Mastandrea è un autore che dirige cinema per soffocare e far esplodere i suoi bisogni.

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Una lacrima sul riso: specchiarsi in Valerio Mastandrea

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Soffocare e poi esplodere. Trattenersi e infine scoppiare. Ride, in concorso al Torino Film Festival 2018, è un film di estremi, di contrasti e di opposti. È un film che assomiglia tanto allo stile recitativo di Mastandrea, abile nel mettere in scena uomini molto bravi a guardarsi attorno, a subire la realtà e poi imporre il loro sguardo spesso ironico sul mondo. Questo approccio esistenziale permea quasi tutto il suo esordio, ed è facile ritrovare molti dei suoi atteggiamenti ironici e sarcastici nell'ottima prova di Chiara Martegiani, donna che non riesce a perdonarsi un'accettazione del lutto sin troppo indolore. Però, parlare di Ride come di un racconto che guarda al dolore con ironia, sarebbe limitativo. Quello che Mastandrea riesce a fare molto bene è mettere in scena tutti gli stratagemmi che chi rimane mette in atto per beffare la morte.

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Nelle giornate di chi resta, in quegli infiniti attimi di doveri che precedono un funerale, ci si appiglia davvero alle piccole cose, a rituali, luoghi, oggetti utili a ridefinire il proprio quotidiano. Un meccanismo di difesa utile non tanto a soffocare il dolore, ma a ritrovare senso e vitalità in piccoli luoghi altrimenti impensabili. Per questo Ride è un film molto domestico e volutamente ripetitivo nei luoghi e nelle situazioni. Mastandrea mette in scena rituali che diventano abitudine, abitudini che sgomitano, si fanno spazio e sfociano dentro vite ridefinite. Tutto questo raccontato attraverso un triplice punto di vista: quello di un figlio, quello di una moglie e quello di un vecchio padre. In un miscuglio di tenerezze, ricordi, sorrisi, piccole assurdità, pentimenti e dolori, Ride è un film dedicato alla vita che comunque va avanti. E al senso di colpa che comporta ammettere che nessuno è indispensabile per continuare a vivere.

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Il tatto e il senso della misura

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Mai ricattatorio nei confronti dello spettatore, Ride è un film che cerca di mettersi i guanti per trattare con il giusto tatto una dimensione intima e delicata. Mastandrea questo tatto ce l'ha (cosa non da poco), ma ogni tanto perde il senso della misura inserendo degli elementi drammatici troppo forzati e carichi di un pathos inverosimile. Ride si fa preferire nella sua dimensione più piccola, casalinga e intimista e non quando prova ad allargare i suoi orizzonti trattando temi sociali e scontri generazionali tra i padri e i figli costretti a vivere il mondo consegnato nelle loro mani dai propri genitori. Se le sequenze più visionarie sono funzionali alla storia e non rischiano di sabotare l'empatia di chi guarda, i rari momenti più poetici sono sinceri, schietti, non sovraccarichi di ruffianeria. Peccato soltanto per qualche elemento troppo artefatto e ridondante (come un utilizzo ripetitivo della musica e sguardi in camera) che tradiscono per qualche attimo l'impulso istintivo del racconto. Sospeso tra dramma e commedia, Ride graffia e accarezza, commuove e ti fa sentire quasi in colpa per qualche sorriso fuori posto. Grazie a un ritratto familiare sentito, Mastandrea scardina il preconcetto che il dolore debba attenersi a uno suo galateo funereo e ci scendere a patti con la nostra percezione della perdita e del suo inevitabile superamento. Il che lo rende per forza di cose un film condannato a dividere. Da queste parti gli abbiamo voluto bene.

Movieplayer.it

3.0/5