Revenge: le donne si impossessano del sottogenere horror, con risultati spettacolari

La regista francese Coralie Fargeat si dà all'action con tinte horror decorando con il sangue il paesaggio desertico del Marocco e ottenendo una performance strepitosa dall'attrice italiana Matilda Lutz. Presentato al Torino Film Festival nella sezione After Hours.

Jennifer, giovane americana che sogna una carriera a Los Angeles, raggiunge il suo amante, il francese Richard, per un weekend di passione in una non precisata località desertica. L'idillio è di breve durata a causa dell'arrivo di Stan e Dimitri, due soci d'affari di Richard invitati per una battuta di caccia. La ragazza è vittima di attenzioni morbose da parte dei nuovi arrivati, e la situazione degenera presto in violenza sessuale, con reazioni non proprio di supporto da parte di Richard. Umiliata e costretta a ricorrere a metodi più estremi, Jennifer dà il via a un lungo, inesorabile percorso di vendetta, trasformando i cacciatori in vittime.

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V per vendetta

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Nell'ambito del cinema di genere ha una reputazione alquanto problematica il filone noto come rape and revenge, la cui struttura solitamente ruota intorno a una donna che viene violentata e il più delle volte data per morta, per poi riprendersi e punire brutalmente gli assalitori (in caso lei muoia ci pensano parenti/amici). Un canovaccio solitamente associato all'exploitation negli anni Settanta, con una volontà di scioccare/provocare senza andare oltre l'elemento orrifico, come nei famigerati Non violentate Jennifer (I Spit on Your Grave) di Meir Zarchi o L'ultima casa a sinistra di Wes Craven (rifacimento ufficioso de La fontana della vergine di Ingmar Bergman, raro esempio di lungometraggio che sfrutta la tematica in modo più profondo per esplorare i sensi di colpa e i rapporti tra l'uomo e Dio), mentre in tempi più recenti ci sono stati film che evocano il sottogenere senza essere rape and revenge in senso stretto (Irréversible di Gaspar Noé, Animali notturni di Tom Ford, Uomini che odiano le donne di Niels Arden Oplev).

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A questo secondo gruppo aspira Revenge, produzione transalpina a firma della cineasta Coralie Fargeat e girata nei territori desertici del Marocco e in Francia con un cast ridotto ma internazionale: il viscido Richard è interpretato dal belga Kevin Janssens, mentre la protagonista Jennifer (nome che rimanda esplicitamente a I Spit on Your Grave) ha le fattezze dell'attrice italiana Matilda Lutz, già vista in un ruolo completamente diverso ne L'estate addosso di Gabriele Muccino. Da quel personaggio virginale la venticinquenne Lutz è passata a un angelo della vendetta, figura spietata e inarrestabile che, almeno nell'ambito del cinema di genere, può equivalere a una consacrazione carrieristica di non poco conto. Il tutto sotto l'occhio lucido e cinefilo della regista che, fin dal titolo, intende riappropriarsi di un tipo di film tipicamente in mano a firme maschili (con alcune eccezioni notevoli come Baise-moi - Scopami o American Mary) e sfruttarne il potenziale puramente spettacolare senza la componente exploitation (la violenza sessuale è mostrata solo in minima parte).

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Deserto rosso sangue

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La fotografia rovente si sposa alla perfezione sia con i primi minuti del film, dove la passione ha un che di illecitamente idilliaco, che con la maggior parte del racconto, dove subentra la brutalità nei paesaggi sabbiosi e aridi del Marocco, dove è situato l'anonimo canyon degli orrori che si fanno sempre più espliciti (alla prima del film al Festival di Toronto almeno uno spettatore si è sentito male durante una scena particolarmente brutale). Jennifer, anzi Jen (diminutivo che sottolinea la sua funzione da Lolita nella parte iniziale e la sua apparente sottomissione al dominio patriarcale), incaricata simbolicamente di ereditare e plasmare nella propria immagine un sottogenere dalla fama decisamente cattiva, è l'eroina horror di cui abbiamo bisogno nel clima socio-politico di oggi. Revenge è la risposta di genere (per quanto realizzata prima) allo scandalo nato dalle accuse di molestie sessuali contro Harvey Weinstein e altri uomini in posizioni di potere in diversi ambiti. Come il famigerato produttore americano, gli uomini in questo film si credono superiori a tutto e tutti, e da quella mentalità scaturisce un attacco da cui riemerge una nuova Jen, inarrestabile e incontenibile nella sua rivalsa dai toni talvolta biblici.

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Come già detto, l'operazione funziona nel complesso pur non essendo oliata alla perfezione: anche per gli standard di una pellicola di genere ci sono dei punti che possono mettere a dura prova la sospensione dell'incredulità, ma si tratta di un difetto abilmente compensato dalla furia della protagonista e del film stesso, che si tramuta gradualmente in un violento, gratificante urlo di ribellione nei confronti di un modo di pensare antiquato, che va rimosso nel più brutale dei modi. Ed è anche un urlo di gioia sul piano cinefilo, con la mutazione completa in ottica femminile di un modo di fare cinema che, pur avendo protagoniste donne, spesso cedeva alle tentazioni dello sguardo maschile. Ora non è più così: ogni volta che viene inquadrato il fondoschiena di Jen, la componente erotica cede il posto alla celebrazione delle gesta di un personaggio che difficilmente dimenticheremo.

Movieplayer.it

3.5/5