Recensione Why Don't You Play in Hell? (2013)

Dopo il dittico Shimizu/The Land of Hope, Sion Sono si concede una parentesi più ludica (e nostalgica del cinema che fu); anche qui, tuttavia, il suo stile iperrealistico, grottesco e a tratti inquietante, è sempre presente.

Dovevo fare (a modo mio) del cinema

Hirata e i suoi amici hanno il sogno di diventare filmaker. Innamorati delle riprese dal vivo, sempre armati delle loro inseparabili macchine da presa, i ragazzi si divertono a filmare le risse di strada, a cui frequentemente danno vita ragazzi loro coetanei. Nel frattempo, in TV impazza lo spot pubblicitario di un dentifricio, con protagonista Mitsuko, una bambina di 10 anni; la ragazzina, però, è però anche figlia del boss Muto, capo di un potente clan di Yakuza in perenne lotta con i rivali Kitagawa. Quando la moglie di Muto viene arrestata, a seguito dell'uccisione di tre membri dei Kitagawa che avevano cercato di eliminarla, Mitsuko viene casualmente a contatto con il sicario Ikegami. Dieci anni dopo, nessuno dei due ha dimenticato questo incontro: Ikegami è il nuovo leader dei Kitagawa, mentre Mitsuko, dopo quel fortunato spot, non è riuscita a sfondare nel mondo del cinema. Nel frattempo, Hirata e i suoi amici, divenuti adulti, devono far fronte a quella che ormai sembra la mancata realizzazione dei loro sogni. Ma, inaspettatamente, le loro strade si incroceranno con quelle delle due famiglie criminali, dando ad ognuno una chance per raggiungere i propri obiettivi.

Dopo il dittico costituito da Himizu e The Land of Hope, opere che affrontavano il tema dello tsunami del 2011 (e del conseguente disastro nucleare di Fukushima) Sion Sono aveva evidentemente bisogno di un break, di una parentesi dal carattere più ludico e disimpegnato. Why Don't You Play in Hell?, in effetti, è principalmente una commedia nera, pur se realizzata nel personalissimo e iperrealistico stile del regista nipponico. La definizione di black comedy, in realtà, è quantomai riduttiva per un'opera che mescola, in modo anarchico e disinvolto, lo yakuza movie con la teen comedy, l'action urbano con le arti marziali, con frammenti di puro splatter iperrealistico e, su tutto, un'intensa elegia del cinema che fu. Lo script, piuttosto complesso e ricco di personaggi, segue tre linee narrative principali: con una seconda parte che ritrova i protagonisti a dieci anni di distanza, incrociandone (e portandone a compimento) le vicende. Lo stesso regista ha rivelato di aver scritto la sceneggiatura del film 17 anni fa, e di aver successivamente approfittato dell'evoluzione delle tecniche di ripresa per inserirvi una sorta di requiem del 35 mm.
In effetti, Why Don't You Play in Hell?, per gran parte della sua durata, rappresenta una sorta di peana ad un cinema che non c'è più, nonché una dichiarazione d'amore all'artigianato filmico e a una cinematografia di genere (dai chanbara ai gongfupian di Bruce Lee) che il regista dimostra di conoscere ed amare. Certo, Sion Sono non rinuncia alle sue ossessioni e alle inquietudini generate da personaggi sempre borderline e disturba(n)ti: la sequenza che vede la piccola (e già inquietante) Mitsuko fronteggiare il killer Ikegami, in un lago di sangue, fa correre un sottile brivido sulla schiena; mentre la sua figura da adulta è quella di una dark lady sui generis (in declinazione orientale) capace anche di atti di spietata crudeltà. La cifra grottesca che da sempre caratterizza il cinema del regista è ben presente, con la stilizzazione iperrealistica di personaggi, dialoghi e situazioni; anche se il prevalere di un tono più prettamente comico, e l'acceleratore premuto sui momenti meno realistici, fa pendere, in questo caso, decisamente la bilancia dal lato del divertissment.
Nonostante questo, non abbiamo problemi a prendere sul serio (e a trovare anche toccante) la componente più malinconica ed elegiaca di Why Don't You Play in Hell?; quella che si sofferma sui cambiamenti dell'arte cinematografica nell'ultimo decennio, nonché sui meccanismi stessi della produzione, e della fruizione, cinematografica. Non è un caso che, nel set cinematografico che i protagonisti montano negli ultimi minuti del film, siano ben in vista le macchine da presa analogiche, nonché quelle attrezzature (di illuminazione e foniche) che l'uso del digitale ha drasticamente ridotto, quando non eliminato. Persino il prevedibile bagno di sangue finale, nelle sue premesse, non può non essere letto con un occhio particolare a questa esigenza espressiva. Esigenza che diviene ancor più chiara se si guarda l'interprete del vecchio Muto, Jun Kunimura, carismatico attore giapponese già presente nei due Kill Bill, nonché in Hard Boiled di John Woo e in molti dei film di genere omaggiati dal regista. Il fatto che il requiem per il 35 mm, con tutte le sue conseguenze per il tono del film, sia stato inserito in un secondo momento, depone certo a favore del regista: che, come già in Himizu (scritto prima dello tsunami) riesce ad apportare importanti cambiamenti "in corsa" ad un progetto, senza per questo comprometterne l'armonia. L'aver conseguito questo risultato in un prodotto (come questo) dal taglio più ludico, non modifica sostanzialmente l'importanza di tale capacità.

Movieplayer.it

3.0/5