Recensione The Act of Killing - L'atto di uccidere (2012)

The Act of Killing è in parte racconto biografico, in parte odissea collettiva, in parte resoconto di un progetto artistico: ma è soprattutto un viaggio, sconvolgente quanto necessario, in una delle pagine più sanguinose, e colpevolmente taciute, della storia del Novecento.

Un viaggio rivelatore

Indonesia, 1965. Un'organizzazione armata, autoproclamatasi "Movimento del 30 settembre", organizza un colpo di stato militare, rapendo il presidente Sukarno e uccidendo sei generali dell'esercito. Il giorno dopo, il complotto, attribuito al Partito Comunista Indonesiano (PKI) viene rapidamente sventato, e i suoi promotori eliminati; contestualmente, uno dei generali risparmiati dalla rivolta, Suharto, sale al potere. Sarà l'inizio di un violento regime, dalla durata trentennale, caratterizzato, nella sua fase iniziale, da uno dei più sanguinosi (e taciuti) massacri che la storia ricordi: lo sterminio, tra il 1965 e il 1966, di circa un milione di sospetti comunisti. A pianificare e mettere in atto il genocidio, squadroni del movimento paramilitare Pancasila, braccio armato del nuovo regime; cooptati e inquadrati nell'organizzazione, spietati gangster e criminali comuni, promossi al rango di difensori dell'ordine nazionale. Quasi un cinquantennio dopo, con quei crimini ancora impuniti, e i loro perpetratori considerati eroi nazionali, il regista Joshua Oppenheimer si è recato sul posto per guardare in faccia l'orrore: ha incontrato uno dei killer di allora, Anwar Congo (ora anziano benestante) e ha proposto a lui, e ai suoi compagni d'epoca, di rappresentare le loro gesta in un film di fiction. I modelli, i film americani tanto apprezzati dagli assassini: noir, film western, musical. Il risultato, due ore di documentario che diventano non solo un viaggio in una pagina nerissima di storia; ma soprattutto un'esplorazione degli abissi più neri dell'animo umano, della coscienza e della percezione dei concetti di bene e male.


In questi giorni, assistere (in Italia) a un documentario come The Act of Killing - L'atto di uccidere non può non rimandare all'attualità, e contestualmente a una pagina ancora aperta, e sanguinante, della nostra storia. La disputa, mentre scriviamo ancora non risolta, sui funerali dell'ex capitano delle SS Erich Priebke, spinge a un parallelo con un'analoga, seppur infinitamente più nota, tragedia dello scorso secolo; ma, soprattutto, lo sguardo del pluriomicida Anwar Congo, la naturalezza e l'orgoglio con cui lui e i suoi amici raccontano i loro crimini, fanno venire in mente le interviste filmate all'anziano Priebke, l'inquietante, beffardo sorriso dell'ex militare, la sfrontatezza nel minimizzare, senza il minimo accenno di pentimento, il massacro di centinaia di innocenti. Questa inevitabile associazione conduce diritta ad uno dei temi portanti del documentario di Oppenheimer, ovvero la natura della coscienza, nonché la sua apparente assenza in determinate circostanze. Provoca un groppo alla gola, e fa vibrare di rabbia, vedere Anwar e i suoi compagni di allora raccontare le loro gesta, rievocarle scherzosamente durante le riprese del film, parlarne come di un compito di routine. Parallelamente, la narrazione collettiva di tali azioni, la loro rappresentazione, nell'immaginario indonesiano, come atti eroici anziché atrocità, la sconvolgente rimozione del carattere di esseri umani delle vittime, in favore di una grottesca e sanguinosa epopea eroica; temi che interrogano sulla visione e la percezione collettiva degli eventi, su come sia possibile guidare, da parte dei detentori del potere, la costruzione dell'immaginario collettivo, fino a influenzare e distorcere profondamente i concetti di bene e male. Temi che inevitabilmente si estendono, dalla realtà specifica della società indonesiana, a quella occidentale, sempre più plasmata dal potere dei media.

Eppure, The Act of Killing apre strade impensate, pone domande che non ottengono facili risposte, guarda dritto negli occhi l'orrore; e lascia sgomenti per come da questo emerge, ancora una volta, una natura umana. Imprevedibilmente, il criminale Anwar Congo, colui che ha torturato, seviziato e massacrato migliaia di esseri umani, mostra nel film una decisiva evoluzione: il baldanzoso orgoglio con cui inizialmente, protetto dall'impunità, si mostra fiero nel raccontare le sue gesta, lascia gradualmente il posto a un'inquietudine, al dubbio, e infine all'empatia nel momento in cui, sul set, è costretto a interpretare una delle sue vittime. Non si dubita che il pentimento fatto vedere da questo "mostro", nei minuti finali del film, sia autentico: un sentimento che era stato ricercato (ma non dato per scontato) dal regista, nel momento in cui ha progettato il documentario; ma che certo non era nelle previsioni di colui che l'ha provato, convinto di prender parte a una nuova celebrazione mediatica delle sue azioni. La domanda, inquietante quanto inevitabile, è su quante vittime innocenti, e quanto dolore, si sarebbero potuti evitare, se tale processo mentale fosse stato attivato prima. Una riflessione che coinvolge, ancora una volta, il potere della rappresentazione, e dell'auto-rappresentazione, in forma mediatica (il "crollo" emotivo di Anwar avviene mentre l'ex gangster si rivede, sullo schermo, nei panni di una delle sue vittime) ma che riflette anche, più specificamente, sulle potenzialità del racconto cinematografico.
Da questo punto di vista, il film di Oppenheimer sembra mostrare la Settima Arte come strumento dal carattere ambivalente, ma anche dal potenziale inesplorato (quanto decisivo): dapprima folle fonte di giustificazione per i crimini di Anwar e dei suoi amici ("facevamo come i gangster dei film americani", dice) poi strumento del suo, sorprendente quanto tardivo, ravvedimento. L'estetica adottata dal documentarista anglo-americano, nel suo racconto che è in parti uguali narrazione biografica, odissea collettiva, e resoconto di un progetto artistico, è quantomai elaborata: la messa in scena del film interpretato da Anwar si confonde e sconfina in quella del suo contenitore, la rappresentazione del suo percorso personale si nutre di quella del suo doppio cinematografico. A livello visivo, The Act of Killing è alternativamente noir, western e musical: ma è, soprattutto, qualcosa che rappresenta di più della somma delle sue parti. Un viaggio doloroso nella memoria personale (quella di un "mostro") e in quella collettiva, nelle pieghe di eventi colpevolmente dimenticati e taciuti dalla storia: un'esperienza problematica e a tratti sconvolgente, ma indispensabile per apprendere le circostanze di tali eventi, e cercare, nei limiti del possibile, di capirli.

Movieplayer.it

4.0/5