Recensione O Jerusalem (2006)

Ossessionato dalla paura di aderire a un punto di vista piuttosto che a un altro, Chouraqui annega in un pedante accademismo senza respiro finendo per dimenticare l'essenza stessa del cinema senza per questo proporre uno strutturato discorso documentaristico.

Pedagogia arabo-israeliana

Tema enciclopedico e di rara complessità, il conflitto arabo-isrealiano flagella la storia moderna narrando di un pezzo di terra imbevuto di sangue. Una contrapposizione politica e culturale indomabile e mai trascurata al cinema. Ma se proprio negli ultimi anni, due film come Paradise Now e Munich (diversi, lontani, inconfrontabili ma accomunati dalla bontà del risultato) hanno gettato uno sguardo lucido e profondo sulla vicenda, con O Jerusalem di Elie Chouraqui si perde in un cinema civile vecchio e stanco, in continuo esercizio di equilibrio e di imparzialità, assalito da continui dubbi cerebrali e da un desiderio di sensibilizzazione da cinema delle scuole medie.

Alla base c'è un romanzo: Gerusalemme! Gerusalemme! di Dominique Lapierre e Larry Collins, che racconta la tragedia di questa eterna divisione attraverso il ricorso a storie di vita e episodi a portata di rapida focalizzazione. La trasposizione cinematografica si affida al classico escamotage drammaturgico di un'amicizia (nata a New York nel 1946 tra l'ebreo Bobby e l'arabo Saïd) minata dalle contingenze politiche, come leva narrativa per raccontare le tappe salienti del conflitto. Dalle aperture delle ostilità che spingono i protagonisti a abbandonare New York per dirigersi a Gerusalemme, complice il primo sanguinoso attentato all'Hotel King David, il film racconta la nascita delll'attività politica terroristica e popolare, conseguente alla votazione delle Nazioni Unite del 27 novembre 1947 che sancisce la divisione della Palestina. Da allora il calvario che ci accompagna fino ai nostri giorni e che chiama in causa, non solo le ragioni di arabi e ebrei, ma un'ampia pagina di politica internazionale contemporanea, minimamente suggerita nel film di Chouraqui che sceglie di circoscrivere il suo arco temporale tra il 1946 e il cessate il fuoco delle Nazioni Unite del 22 novembre 1967, a seguito della durissima guerra dei sei giorni.

Ossessionato dalla paura di aderire a un punto di vista piuttosto che a un altro, Chouraqui annega in un pedante accademismo senza respiro finendo per dimenticare l'essenza stessa del cinema - e anche della storia, che mai si racconta con piglio e intenti tanto asettici - senza per questo proporre uno strutturato discorso documentaristico. Rimane poi un mistero (per quanto ovviamente di poco conto) il continuo ricorso a didascalie sovraimpresse con un effetto di trasparenza di raro cattivo gusto. Se Spielberg - che passa per buonista ma fa il miglior cinema civile del mondo proprio perché flirta impunemente col genere e si sporca abbondantemente le mani - dissemina il suo Munich di continue stoccate politiche tutt'altro che concilianti, O Jerusalem è un film imbalsamato che si limita a illustrare didascalicamente date, situazioni e punti di vista senza porsi domande, sperperando anche il potenziale drammaturgico insito nel plot. Non è un caso che ci si senta quasi a disagio nel trovarsi spaesati e mai coinvolti di fronte a ogni snodo narrativo o picco emozionale. E anche un po' sollevati all'apparizione dei titoli di coda.