Recensione Quel mostro di suocera (2005)

Una commedia scarna e volgarotta che manca spesso il segno e si rifugia maldestramente in meccanismi banali.

Partita a quattro

Charlie è una ragazza semplice, un po' paurosa, timida nell'affrontare la vita, in balia di una rassicurante e perenne indecisione. Si guadagna la vita facendo mille lavoretti mentre sogna di diventare un giorno una pittrice.
Kevin è un giovane chirurgo di successo, bello, ricco, bravo e buono. Praticamente un essere insopportabile.

Come faccia la giunonica Charlie, che passa dalla compagnia dei cani a quella dei suoi altrettanto strampalati amici, a innamorarsene, è un mistero. Certo c'è sempre la carta del colpo di fulmine da giocare, e infatti qui ce la si gioca nel modo più improbabile che riusciate a immaginare.
In men che non si dica la coppia è fatta, non dopo - però - aver superato un primo temibilissimo ostacolo: la pretendente bugiarda e meschina. Ora non è che uno debba per forza pretendere il politically correct, i fratelli Farrelly hanno fatto scuola (per quelli di memoria corta, per gli altri non c'è che l'imbarazzo della scelta, da Lubitsch a Wilder passando per chi vi pare), ma il siparietto comico sulla suggerita omosessualità di lui che da la stura a una risibile serie di battute e ammiccamenti, che rimbalzeranno poi sull'altro personaggio omosessuale-buffone, poteva esserci tranquillamente risparmiato.

Serve, forse, a mostrare un poco le unghie, a far vedere che questo è un film che si incastona nella gloriosa tradizione della commedia graffiante, irrispettosa, cinica. A prepararci all'entrata in campo di Viola, la terribile madre di lui, che ne farà di cotte e di crude pur di mandare carte a quarantotto l'unione dei due giovani. Interpretata da una Jane Fonda in scarsissima forma (grande attrice non è mai stata, ma sicuramente la graniticità monocorde della sua parte non le è stata d'aiuto), Viola è una non più giovane anchor-woman, che vive tra i ricordi della celebrità televisiva fino al momento di intraprendere il viale del tramonto. Regola vuole che il cattivo, in una commedia, debba essere simpatico, per lo meno buffo, ridicolo. Cosa che qui non succede, o per lo meno non riesce, se non in rarissimi momenti. Viola si limita a urlare come un'ossessa e a farsi male fisicamente; due cose che possono far sorridere una volta, due, ma poi basta.

Non è d'aiuto, in questo senso, la scelta di introdurre una spalla comica che, al pari dei tre protagonisti, è un coacervo di stereotipi. Ruby, l'assistente personale di Viola, è nera (per poter sopportare le terribili angherie della padrona con quel tanto di bonaria rassegnazione che sempre hanno i neri nei film americani), grassottella, saggia, sottomessa e furba. Avete presente Mammy di Via col vento? Simile, ma più carina e più magra. Mentre Jane Fonda si gioca, fondamentalmente, la carta delle "torte in faccia" o del "piede nel secchio" su fino all' "innaffiatore innaffiato"(nelle sue declinazioni più monotone), il personaggio interpretato da Wanda Sykes cala quella del "bruciante motteggio" che, a causa del buon gusto di cui sopra, finisce spesso nel turpiloquio con l'esilarante effetto che ognuno puo' immaginare.

Si va avanti in questo modo, fra frizzi e lazzi, in un crescendo esagerato di miope cattiveria, fino a quando il deus ex machina cala dall'alto a ristabilire l'equilibrio per il più telefonato e melenso dei finali immaginabili.

In mezzo a tanta povertà, di mezzi e di idee, in questa specie di sagra di luoghi comuni a buon mercato, chi ne esce a testa alta è senza dubbio Jennifer Lopez, capace - sola - con i suoi occhioni lucidi e la sua castigata sensualità di infondere un minimo di umanità e di emotività nel suo personaggio, di farlo "vivere" al di là della gag.

A quindici anni dal mediocre Lettere d'amore, per il ritorno sullo schermo di Jane Fonda, tutto sommato, potevamo aspettare.