Paolo Virzì e i giovani senza 'Tutta la vita davanti'

Il regista toscano e il suo cast presentano il film dedicato al girone infernale in cui sono relegati i telefonisti dei call center.

Con l'avvicinarsi delle elezioni politiche, arriva nelle nostre sale anche un film che prova a cogliere il nostro tempo e a fotografare l'Italia, i suoi giovani e il mondo critico del lavoro precario. Ambientato in un call center di un'azienda truffaldina, Tutta la vita davanti è l'ultimo lavoro di Paolo Virzì, che continua a far commedia senza dimenticare il lato tragico di ciò che racconta. Protagonista è una neo-laureata in filosofia costretta a lavorare in un call center, tra canzoncine e balletti per cominciare meglio la giornata e colleghe che lottano per mantenere il loro posto da 400 euro al mese e per conquistare il premio di miglior centralinista del mese. A presentare il film, in uscita in 350 copie distribuite da Medusa, sono giunti a Roma il regista Paolo Virzì e il nutrito e prestigioso cast.

Paolo Virzì, questo film rappresenta un po' la summa di quanto realizzato negli ultimi anni, una pellicola divertente e drammatica allo stesso tempo. Come avete lavorato per prepararlo?

Paolo Virzì: Ci abbiamo messo dentro uno spirito di curiosità, di pietà, verso la società italiana, verso lo spirito che stiamo vivendo oggi. Non volevo fare un film lagnoso perché non amo i film che danno ragione a sé stessi e che si autocommiserano. Lo spirito dei subalterni è di allegra riscossa e di critica ironica, ma anche compassionevole. Lo sguardo della ragazza è senza pregiudizi, il suo viaggio nell'inferno della sottoccupazione è un viaggio nell'Italia di oggi. Ci siamo basati sull'osservazione sul campo, ci siamo interessati di tanti casi di vita vissuta, di ragazzi condannati alla fuga all'estero o all'odissea del precariato. Prima ancora che politico, volevo passasse un messaggio epocale, esistenziale. Tra i casi personali che ci hanno colpito c'era quello di una ragazza sarda che ha scritto un blog-diario sull'esperienza dei call center e ne ha tratto un libro, Il mondo deve sapere. Siamo partiti facendoci raccontare le sue giornate di lavoro che trovate abbondantemente descritte nel film, ma abbiamo sentito anche tante altre voci per raccontare questa strana realtà di oggi. Da tutti i racconti che abbiamo raccolto si evince che ciò che accomuna carnefici e vittime è l'ansia del futuro.

Nel suo film c'è proprio questa idea che siano tutti vittime, anche i cattivi.

Paolo Virzì: Non è un caso che abbiamo fatto laureare la protagonista con una tesi su Hannah Arendt, filosofa tedesca e autrice de La banalità del male. La Arendt è andata un giorno ad assistere al processo di Eichmann, l'uomo che gestiva Auschwitz, e si è trovata di fronte un uomo che ha condotto quel campo di concentramento con la stessa pignoleria che si ha nel gestire un'officina di carrozzeria. Lo spirito della Arendt, che non condanna, ma partecipa e in qualche modo assolve, è lo stesso che abbiamo fatto sposare alla nostra protagonista. Il film guarda a certe problematiche in una chiave apocalittico-allegra, è una fotografia cinica, appassionante, crudele ma reale del mondo che ci circonda e di cui spesso non ci accorgiamo. Il nostro è un tempo difficile, ci sono nuove forme di sofferenza, solitudine, sfruttamento e ingiustizia difficilmente distinguibili. La società è cambiata: prima si considerava sfruttamento far lavorare un uomo per più di sedici ore, oggi la vera tragedia è lavorare solo quattro ore. C'è questa nuova forma di disagio nel mondo del lavoro e della vita.

Il suo sguardo sull'Italia è terribile. E' davvero senza speranza la nostra situazione?

Paolo Virzì: In realtà spero si intraveda un nuovo inizio nella solidarietà di due persone così distanti come Marta e Sonia, le protagoniste del film, cioè di una ragazza colta e una sciacquetta ignorante e smarrita. Nel finale siedono allo stesso tavolo quattro generazioni di donne ferite, ma tra loro c'è un sentimento di solidarietà che penso possa essere una sorta di medicina anche per il mondo del lavoro dove domina la solitudine. Nel film raccontiamo che se non è esperienza di relazione allora il lavoro non è civiltà. Quello che auspica il sindacalista del film è una stagione non più ripetibile, quella delle rivolte consapevoli, perché la nostra società si è trasformata e il nostro è diventato il paese della flessibilità. Oggi puntiamo a migliorare il Prodotto Interno Lordo, disinteressandoci del fatto che non sta certo migliorando la qualità della vita. Non credo che le aziende call center che operano a progetto siano tutte mascalzone. Noi raccontiamo una cosa estrema, ma emblematica, e spero che aziende simili non trovino più nelle leggi nazionalità la possibilità di operare in questo modo così sadico e truffaldino. C'è un'ingiustizia più beffarda oggi perché vestita in modo elegante.

Il film esce in un periodo caldo visto che siamo sotto elezioni e in esso viene rappresentata l'Italia come una marmellata unica in cui non si riesce a distinguere molto. Secondo lei, all'uscita della sala, cosa penserà lo spettatore? Sarà in qualche modo orientato a votare in un senso o nell'altro?

Paolo Virzì: Lo scopo del film non è fare propaganda elettorale, ma spero accenda la voglia di riflettere sulla società, sulla nostra vita. Il film racconta la confusione, in maniera controversa. Il nostro lavoro è narrare una storia agitando le emozioni più che le intenzioni di voto. Siamo contenti di aver reso visibile qualcosa che non è ancora tanto mostrato. Il call center non è una categoria dello spirito, è un servizio che si articola in varie modalità, da chi riceve le chiamate all'attività di telemarketing. Noi vogliamo raccontare storie con un'anima e una passione per le persone. Il nostro lavoro è intrattenere la gente e cerchiamo di farlo nel modo più nobile e appassionato possibile.

Nel film lei guarda anche alla cattiva televisione, al reality che incombe in ogni sequenza e che genera mostri. Quanto danno ha fatto questo tipo di televisione?

Paolo Virzì: Non la vedo così, non c'è demonizzazione della televisione nel nostro film, non siamo manichei. La tv è il nostro tempo, non è né buona né cattiva. Il Grande fratello è un programma che abbiamo guardato con gusto durante la prima edizione e Marta lo trova altrettanto interessante e lo segue con sguardo antropologico, sociologico. Quello verso la televisione sarebbe uno sdegno troppo facile, semmai volevamo raffrontare le tecniche di selezione del personale coi casting da reality show.

Sabrina Ferilli, il suo personaggio nel film è quello di una femme fatale con aspetti piuttosto tragici. Come si è presentata a un ruolo così coraggioso?

Sabrina Ferilli: Il coraggio viene dalla fiducia nelle idee, nei principi e nelle persone, e in Paolo ripongo una fiducia illimitata. Le mie scelte sono sempre dettate dalla bontà della scrittura e del ruolo che mi viene proposto. Sono stata lontana dal cinema per questioni di opportunità, ma anche perché ho una certa autonomia in televisione e trovo personaggi che faccio vivere come voglio io. Il cinema non mi aveva offerto l'energia giusta per interpretare certi ruoli. Questo è il terzo film che faccio con Paolo ed è sempre un piacere lavorare con lui perché abbiamo una sensibilità simile.

Cosa pensa lei dei laureati che finiscono con lavorare in un call center?

Sabrina Ferilli: C'è una credenza sbagliata secondo la quale il laureato è portatore del bene e il lavoratore la sua antitesi. Il nostro film dice che sia il laureato che il lavoratore hanno pari dignità ed entrambi possono accendere una lampadina. Bisogna riflettere sempre perché il cervello è la nostra salvezza. I laureati non fanno parte di una categoria di intoccabili perché conosco laureati idioti e centralinisti molto intelligenti. Viviamo in un mondo che non ci consente di raggiungere una meta, pur avendo i mezzi per farlo, e non dovrebbe essere così.

Isabella Ragonese, dopo Nuovomondo si è ritrovata nel difficile mondo del lavoro. Come si è avvicinata al suo ruolo?

Isabella Ragonese: Il ruolo di Marta era sulla carta molto difficile perché rappresenta il punto di vista del film. E' una sorta di straniera, una palermitana che arriva a Roma, in una Roma che è quella periferica e non quella dei turisti, e che dal mondo universitario si ritrova catapultata in quel mondo irreale, quasi televisivo, del lavoro precario. Era un personaggio già scritto bene, pieno di cose e stimoli diversi, e non ho faticato ad avvicinarmi ad esso. Nell'interpretarlo ho pensato istintivamente a una sorta di fumetto, con caratteristiche evidenti, come la camminata esagerata, ma ho trovato il personaggio soprattutto nelle relazioni con gli altri. Ho cercato di relazionarmi il più possibile con gli elementi e i valori che ha questa ragazza, un personaggio che non giudica, ma è accogliente.

Micaela Ramazzotti, lei interpreta una mamma che cerca di sopravvivere tra lavori precari. Cosa può raccontarci del suo personaggio?

Micaela Ramazzotti: Sonia arranca sempre, non sa proteggere sé stessa e di conseguenza la sua bambina. Nel suo caso non è precario solo il lavoro, ma anche il suo sguardo, la sua casa e tutto quello che la circonda. La scorsa settimana ho fatto un servizio fotografico in un vero call center e chiacchierando con una telefonista mi ha colpito molto una sua frase: "Noi siamo gli operai del futuro". Questa cosa mi ha fatto riflettere e mi ha reso molto triste la possibilità che i lavori di artigianato andranno a scemare.

Valerio Mastandrea, come si è preparato per il suo ruolo?

Valerio Mastandrea: Non mi sono documentato per il ruolo del sindacalista, perché abbiamo identificato in questa figura professionale una persona ostinata, con ideali, ma contraddittoria, una persona semplice, normale, che semina perché spera di raccogliere qualcosa di buono. Oggi non è una stagione anacronistica rispetto allo stare in piazza e a sentirsi una comunità, perché mi hanno insegnato che andare in piazza serve prima di tutto a sé stessi, per sentirsi parte di una collettività. Bisogna trovare stimoli e non aver paura di provare rabbia.