Mortal Kombat, Army of the Dead e il problema dei film realizzati per i fan

Una riflessione sui film dedicati principalmente ai fan come Mortal Kombat e Army of the Dead e dei problemi che questa scelta comporta.

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Mortal Kombat: Ludi Lin, Max Huang in una scena del film

Dare al pubblico il film che desidera vedere. Un principio nobile, quello di un desiderio da parte di chi il film lo realizza, per andare incontro agli spettatori e appagarli pienamente. D'altronde, si sa, quanto più il pubblico è contento, tanto più si riesce a creare un passaparola positivo e a trasformare un film che potrebbe non avere granché di originale in un'opera imperdibile e da vedere assolutamente. In poco meno di dieci giorni sono usciti due film che sembrano corrispondere perfettamente all'idea di un film per fan: soggetti sulla carta più o meno interessanti e che, in misura diversa e per motivi diversi, hanno generato un discreto hype prima della loro uscita. Stiamo parlando di Army of the Dead, il nuovo film di Zack Snyder distribuito da Netflix, primo tassello di un universo narrativo che, ancor prima di essersi mostrato al pubblico, è già stato espanso con un film e una serie animata attualmente in produzione, e di Mortal Kombat, reboot e allo stesso tempo remake di un film del 1995 ispirato al videogioco di successo. Entrambi i film promettevano sangue, originalità e soprattutto tutto ciò che i fan (del regista da una parte e del brand dall'altra) volevano vedere. Ma il risultato non è stato del tutto soddisfacente in tutti e due i casi. Mortal Kombat e Army of the Dead sono, invece, due film che mettono in scena soprattutto i problemi dei film creati per i fan, troppo sicuri di sé e dell'aurea cult che si portano addosso. E così, quella che sembrava una flawless victory senza rischi risulta ben presto una tragica fatality.

I fan sono un pubblico privilegiato?

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Mortal Kombat: Hiroyuki Sanada in una scena del film

Solitamente si usa la definizione di "film per fan" per nascondere gli errori di un'opera, cercando di giustificarsi a posteriori di alcune scelte narrative controverse o di un risultato finale non all'altezza. È una scusa che, col passare del tempo, sta diventando sempre meno credibile, perché denota una certa dose di pigrizia nella realizzazione di ciò che è essenziale per la buona riuscita di un film. Spesso, infatti, si ha la sensazione che venga definito un "film per fan" quello che non è piaciuto alla gran parte degli spettatori o dalla critica specializzata, come a dire che i fan fanno parte di un pubblico quasi più nobile e privilegiato, capace di comprendere molto di più la qualità dell'opera data la loro conoscenza che deriva da videogiochi, opere letterarie o semplice passione verso il genere. Come se la nicchia dei fan (e non sempre chi è fan di un videogioco si interessa all'adattamento cinematografico, così come non tutti gli appassionati dei film di Star Wars sono interessati anche ai romanzi o ai fumetti) fosse l'essenziale "quanto basta", come una ricetta culinaria, per dare vita al successo di un titolo. Il primo problema sta nel cercare di costruire un franchise di successo sulla base di pochi eletti che possano cogliere tutte le citazioni, tutti i riferimenti, tutto ciò che il film sembra lasciare sullo sfondo. Il divertimento, però, così come il successo economico, non può essere creato da un'élite. Non quando si parla di blockbuster da milioni di dollari.

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Coinvolgere ed appassionare

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Army of the Dead: Omari Hardwick in una scena

La definizione di "film per fan" rischia, quindi, di diventare una pericolosa arma a doppio taglio. Perché se da una parte sembrerebbe premiare chi segue le opere derivate da un titolo forte, come può essere appunto Mortal Kombat, sottolineando come siano proprio gli appassionati a godere al meglio del film, l'altra faccia della medaglia di quello che all'apparenza è un complimento è ben diversa. Perché il risultato è quello di considerare i fan un pubblico che si accontenta del minimo indispensabile e che, nel peggiore dei casi, non è capace di notare errori, imperfezioni o difetti del film che sta guardando. Usiamo l'esempio di Mortal Kombat (ma sia chiaro che non è l'unico a racchiudere queste problematiche) e di come la presenza dei personaggi più celebri, nonché di una sana dose di violenza e fiotti di sangue sia stata venduta come il motivo d'interesse principale per premere Play. Ma i costumi e la violenza da soli non bastano per creare un film. Servono scenografie più ricche, personaggi con cui provare empatia, un intreccio narrativo che possa essere chiaro e divertente. Seppur con tutti i limiti tecnici, il film omonimo del 1995 diretto da Paul W.S. Anderson capisce molto di più la tipologia che un brand come Mortal Kombat deve avere. Nonostante le ingenuità, la CGI ormai vetusta e una trama ai limiti, il Mortal Kombat del 1995 sa come divertire lo spettatore e appassionarlo. Sa come costruire alcuni momenti memorabili. Sa usare la colonna sonora per distrarre a modo il proprio pubblico. In poche parole, è un B-Movie consapevole di esserlo e rinuncia all'epica per coinvolgere ed appassionare. Il film del 2021, invece, nonostante un inizio convincente non sa davvero divertire. Incoerente nei toni (dove la dimensione epica si scontra con battute fuori tempo massimo), il film di Simon McQuoid si vuole reggere solo sul sangue che schizza, sui tormentoni nemmeno tradotti nel doppiaggio italiano ("Flawless Victory" e "Finish Him" sono la dimostrazione che il film non può uscire dai confini di chi già conosce il significato di quelle frasi) e, soprattutto, su un proseguimento della storia che forse non avverrà mai.

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Prologhi, non film

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Army of the Dead: Matthias Schweighöfer in una scena

Questo ci porta ad affrontare un altro grosso problema dei film per fan, che si lega sia alla creazione di un pubblico nuovo che al desiderio di appassionare e coinvolgere con poco, ed è quello di concepire il film non come un primo episodio di una saga, ma addirittura come un prologo. È un problema che si presenta anche in Army of the Dead che, conscio di avere il via libera ad altri prodotti collaterali, si accontenta di una storia non del tutto originale per lasciare sullo sfondo, nascosto e relegato a vari easter egg, ciò che di nuovo e fresco ha davvero. È un problema che si è presentato altre volte nel corso degli anni: pensiamo a Warcraft - L'inizio (che a partire dal titolo aveva fiducia nel suo successo), a Terminator: Genisys (reboot che doveva riavviare la saga) o anche a La Mummia e Dracula Untold, primi capitoli di un universo condiviso che non ha visto futuro, giusto per dirne alcuni. Tutti titoli che facevano leva sugli appassionati, sui fan e che, evidentemente, si sono dimenticati di costruire una vera storia da raccontare. Nel caso di Mortal Kombat, il famoso torneo che dà il titolo al film non è nemmeno presente, posticipato per un sequel che, complice l'accoglienza mista da parte della critica e del pubblico, non è certo possa avvenire. Army of the Dead, invece, nonostante i progetti già in produzione e approvati da Netflix, proprio a causa del suo adagiarsi su quello che verrà in futuro non è riuscito a entrare nel cuore degli appassionati. Anche in quel caso la sensazione è che si sia visto il minimo indispensabile, un prologo più che un film vero e proprio, dove le cose si faranno interessanti al prossimo film. Ma si sa, le mode cambiano, il pubblico è abituato a digerire ed appassionarsi a tempo di record a ciò che è il titolo del momento e, senza avere una solida base, l'interesse fa presto a calare. Come si crea l'aspettativa per un sequel di Army of the Dead se, disinteressati allo stile del regista, il primo film non è risultato memorabile come promesso? E come si riesce a coinvolgere uno spettatore casuale verso l'universo di Mortal Kombat se tutte le informazioni, i personaggi e la dimensione narrativa vengono date per scontato a chi già (ri)conosce ciò che viene mostrato?

Promesse e speranze

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Mortal Kombat: Angus Sampson in una scena del film

Perché, a ben vedere, il rapporto tra un film per fan e i veri e propri fan è un sottile e fragile filo che si spezza facilmente, dando vita a risultati che non accontentano né il pubblico né gli studios. Pensiamo a come la voce dei fan abbia confuso i progetti della Lucasfilm nel corso della nuova trilogia e di come proprio l'ultimo episodio, che doveva essere il gran finale di quarant'anni di storie, con la voglia di accontentare soprattutto i fan rimasti delusi da un film controverso quale Star Wars: Gli ultimi Jedi, sia uno dei film meno apprezzati della saga. È necessario, quindi, che questi grandi blockbuster ritrovino prima di tutto il piacere di raccontare una storia. Si possono premiare i cultori di un marchio, che siano di un titolo come Mortal Kombat o che siano gli affezionati all'operato di un regista quale Zack Snyder, ma senza dimenticare che, nel realizzare opere cinematografiche o anche solo prodotti di successo, più che rivolgersi direttamente ai fan già esistenti, bisognerebbe costruirne di nuovi. E bisogna farlo non relegando la fortuna vera a sequel e saghe di stampo seriale, ma iniziando subito con un occhio di riguardo nei confronti del primo capitolo. Va ricordato che anche nel modello televisivo non si può sperare in un'ottima seconda stagione se non si è ritenuta eccellente la prima stagione. La sensazione di questa ricerca del nuovo franchise di successo al cinema è che si spera di costruire un legame attraverso un'eredità, che sia nostalgica o già insita negli spettatori, e non nella sua creazione da zero. C'è bisogno di avere una lunga saga a nome Mortal Kombat al cinema, così come di un universo a tema zombie. Senza dimenticare, però, che è un bisogno che serve a tutti, non solo ai fan.