Recensione L'ultimo samurai (2003)

La pellicola ci regala i suoi momenti migliori quando fa a meno della solita retorica hollywoodiana e ci introduce ai valori millenari dei samurai.

La via del guerriero

L'ultimo samurai di Edward Zwick è un film di cui si è parlato molto negli ultimi mesi: in attesa delle nomination agli Oscar è abitudine, infatti, leggere e fare pronostici, cercare indiscrezioni che ci aiutino a capire quali possano essere effettivamente i film e le star più meritevoli. Ma è anche vero che se la pellicola di Zwick all'interno di questa girandola di voci e premi è più volte stata protagonista, ben poco si è effettivamente detto sul valore artistico del film, preferendo dare spazio, invece, alle possibilità di vittoria del protagonista Tom Cruise e, dopo l'annuncio delle nominations ai Golden Globe, del bravissimo e affascinante Ken Watanabe, già definito, con eccessiva fretta forse, il nuovo Toshirô Mifune. Eppure il film, nonostante alcuni momenti di retorica eccessiva in cui riecheggia la filosofia politically correct della star che guida e produce la pellicola, è davvero ben fatto, e riesce non solo ad intrattenere come nella migliore tradizione dell'epica hollywoodiana, ma anche ad emozionare ed affascinare come ben si conviene ad un film che così sfacciatamente si ispira alla strordinaria e sconfinata filmografia nipponica devota ai samurai.

La storia del capitano Nathan Algren parte lontano, negli Stati Uniti che l'hanno lasciato disilluso e sconvolto dagli orrori della guerra ai nativi americani: proprio quando sembra essere sull'orlo dell'autodistruzione, si ritrova a lavorare come consulente per la nascente potenza militare giapponese che vuole modernizzarsi preferendo le nuovi armi da fuoco alle tradizione millenarie simboleggiate dai samurai. Costretto ad una precoce battaglia, combatte con onore e con la grinta di una tigre, conquistando così l'ammirazione del leader dei samurai ribelli, che lo prende come suo prigioniero. Guarito dalle ferite, si ritrova "ospite" di una giovane che egli stesso ha reso vedova e di un villaggio che lo vede come simbolo di tutto ciò che combattono e avversano; sarà solo Katsumoto a dargli inzialmente fiducia e a indicargli "la via del guerriero".

Come già si intuisce dal titolo, il film deve molto ad opere quali i I sette samurai o La sfida del samurai, da cui gli sceneggiatori traggono la parte più efficace di tutta la narrazione, ovvero la rappresentazione del villaggio dei guerrieri ribelli e, soprattutto, della loro vita costantemente guidata dall'onore e dal bushido, il loro codice morale. I personaggi presenti rappresentano sì dei classici stereotipi presi appunto dal cinema e dalla letteratura di genere (il maestro di spada Ujio, interpretato dall'ottimo Hiroyuki Sanada, non avrebbe certo sfigurato in un'opera di Akira Kurosawa), ma risultano vivi e credibili, e lo stesso Cruise è, proprio in questi frangenti, al meglio della sua interpretazione, non risentendo, come invece succede nella parte finale, di quei moralismi americani in stile Il gladiatore - film con cui L'ultimo samurai condivide l'autore del soggetto nonché sceneggiatore, John Logan, e il sempre ottimo compositore Hans Zimmer.

E' quindi nella parte centrale che la pellicola ci regala i suoi momenti migliori, anche grazie ai dialoghi (purtroppo non aiutati dal doppiaggio italiano che non rinuncia in queste occasioni, come già nel recente Lost in Translation - L'amore tradotto, a forzare e simulare dei falsi accenti stranieri francamente ridicoli) tra i due capitani, provenienti da scuole di pensiero e di armi opposte, ma vicini nei sentimenti e negli ideali di purezza e onore. Così com'è pienamente riuscita la sincera sorpresa dell'americano nello scoprire un mondo così diverso dal suo, fatto prevalentemente di sguardi, silenzi e sentimenti taciuti, come l'abile Zwick ci mostra anche nelle fragili scene di una tenerezza quasi paterna oppure di una passione frenata.

Movieplayer.it

3.0/5