Recensione Kinatay (2009)

Tratto da una storia vera, il film si propone di incutere costante tensione nello spettatore, ma lo stile naturalistico scelto dal regista non funziona.

La lunga e buia notte della violenza

Tra i film che più hanno fatto discutere nel corso di questa 62° edizione del Festival di Cannes c'è sicuramente il filippino Kinatay del regista Brillante Mendoza, per la seconda volta consecutiva in concorso alla kermesse francese. Se nel precedente Serbis a dare scandalo era stato il tema del sesso, questa volta Mendoza decide di trattare un altro argomento scottante come quello della violenza e lo fa attraverso il totale dismembramento di una prostituta da parte di un gruppo di poliziotti che agiscono per interessi personali durante una febbrile nottata. A rendere il tutto ancora più scioccante è il fatto che l'intero film ha come protagonista un giovane di vent'anni che sta studiando per diventare poliziotto e che incidentalmente proprio la stessa mattina ha sposata la dolce coetanea con cui convive ed ha un figlio.

Peping, questo il nome del protagonista, ha accettato di partecipare a questa missione notturna senza sapere di cosa si trattasse, per il più banale dei motivi, qualche soldo in più per arrotondare il misero stipendio e poter sfamare moglie e figlia. Per l'intera durata della "missione" Peping è sconvolto e spaventato, si limita ad assistere in silenzio a quello che succede e ad eseguire gli ordini dei superiori senza troppa convinzione. Avrebbe anche la possibilità di scappare ad un certo punto, ma un po' per paura e un po' per consapevolezza di cosa avrebbe comportato quella fuga per la sua carriera, decide di rimanere finendo con il perdere per sempre quell'innocenza che, come mostrato dalla scena iniziale del matrimonio in allegria con parenti ed amici, lo caratterizzava.

Il film è tratto da una storia vera ed è certamente un tentativo interessante di incutere una costante tensione nello spettatore e mostrare questa discesa verso la dannazione eterna da parte di questo testimone (quasi) innocente, ma allo stesso tempo Kinatay (che potrebbe essere tradotto in Massacro) non funziona a causa dello stile naturalistico scelto dal suo regista. Mendoza vorrebbe aumentare il senso di partecipazione dello spettatore, ma invece lo smorza del tutto, soprattutto nella parte centrale con una sequenza lunga quasi mezz'ora filmata in digitale e solo con luci naturali: in poche parole trenta minuti di buio, gemiti della donna prigioniera e poco altro. Interessante sulla carta, ma fin troppo snervante anche per un pubblico educato come quello di Cannes che infatti ha (maleducatamente) mostrato il proprio disappunto con fischi e strepiti.

Movieplayer.it

2.0/5