I miei giorni più belli: l’educazione sentimentale secondo Arnaud Desplechin

Un racconto di formazione filtrato attraverso lo sguardo romantico e malinconico della memoria: l'appassionata storia d'amore fra gli adolescenti Paul ed Esther è il cuore della nuova pellicola sceneggiata e diretta da Arnaud Desplechin, ricompensato con il premio César per la miglior regia.

Se c'è un cineasta, fra quelli della sua generazione, che ha saputo far propria la lezione della Nouvelle Vague senza però adagiarsi in una semplice imitazione, ma rielaborando i modelli truffautiani nel solco di una poetica originale e personalissima, questi è senz'altro Arnaud Desplechin. Classe 1960, fattosi apprezzare in ambito festivaliero fin dal suo mediometraggio del 1991 La vie des morts, Desplechin piò essere considerato, da almeno un decennio a questa parte, uno dei più importanti nomi del cinema francese contemporaneo (un esempio su tutti, il suo capolavoro del 2008 Racconto di Natale).

My Golden Years: una foto di gruppo per il film di Arnaud Desplechin
My Golden Years: una foto di gruppo per il film di Arnaud Desplechin

Uno statuto riconfermato, nel 2015, con I miei giorni più belli (dal ben più evocativo titolo originale Trois souvenirs de ma jeunesse): un ideale sequel - o piuttosto un prequel - della sua pellicola del 1996 Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle). Presentato al Festival di Cannes, ma poco comprensibilmente collocato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs (essendo il cineasta di Roubaix un habitué del concorso ufficiale), I miei giorni più belli ha entusiasmato la critica, ha ricevuto il premio SACD e ha fatto conquistare a Desplechin il prestigioso César come miglior regista, il primo della sua carriera, ribadendone la posizione di assoluto rilievo nell'ambito del cinema d'autore europeo.

I dolori del giovane Dédalus

My Golden Years: una scena del film di Arnaud Desplechin
My Golden Years: una scena del film di Arnaud Desplechin

A quasi vent'anni dal film precedente, Desplechin ci fa ritrovare il personaggio di Paul Dédalus: allora un brillante trentenne alle prese con lo studio, i sentimenti e le prime ansie dell'età adulta, oggi un uomo di mezza età impegnato a fare i conti con un passato che non sembra essere riuscito a scrollarsi di dosso, e i cui rimpianti appaiono al contrario più che mai acuti e lancinanti. Ancora una volta, a vestire i panni di Paul è l'attore feticcio del regista, Mathieu Amalric, che proprio grazie a questo ruolo aveva vinto nel 1996 il premio César come miglior attore emergente. E d'altra parte è nel nome stesso dell'uomo, Dédalus, come lo Stephen Dedalus di Ritratto dell'artista da giovane (e di Ulisse), che si può rintracciare la matrice letteraria del personaggio: dalle analogie con l'approccio modernista di James Joyce e il suo stream of consciousness alla natura riflessiva di Paul, diviso anch'egli fra la vocazione per la cultura e il richiamo irresistibile per il viaggio, la scoperta, il contatto e l'incontro con altre realtà (non a caso il Paul di Desplechin è un antropologo giramondo che ha rinunciato alla sua patria).

My Golden Years: una sequenza del film di Arnaud Desplechin
My Golden Years: una sequenza del film di Arnaud Desplechin
My Golden Years: un'immagine tratta dal film di Arnaud Desplechin
My Golden Years: un'immagine tratta dal film di Arnaud Desplechin

Ma se l'antropologia è la 'missione' di Paul, il motore primario del suo percorso esperienziale verso il 'fuori', ad indagare l'altrove, è la memoria a costituire invece il suo strumento d'indagine dentro se stesso, fra le gioie e i dolori di una giovinezza rievocata con la limpida leggerezza di chi stia sfogliando le pagine di un diario. E di questa giovinezza, I miei giorni più belli propone tre capitoli distinti: un fugace episodio dell'infanzia, emblematico per delineare il rapporto fra Paul bambino (Antoine Bui) e sua madre Jeanne (Cécile Garcia-Fogel), donna violenta e schizofrenica; una curiosa avventura durante una gita scolastica a Minsk, in Bielorussia, al tramonto della Guerra Fredda, quando Paul deciderà di cedere il proprio passaporto ad un coetaneo intenzionato a fuggire dall'area sovietica; e infine, a diciannove anni, il fulmineo corteggiamento e la passione totalizzante per la sedicenne Esther, il grande amore della sua vita. Un amore che, sullo schermo, è incarnato dai volti teneramente sorridenti e dai corpi candidi ed efebici di due attori agli esordi, il ventenne Quentin Dolmaire e la diciottenne Lou Roy-Lecollinet, la quale eredita il medesimo ruolo affidato a Emmanuelle Devos in Comment je me suis disputé... (ma vie sexuelle).

L'amore a vent'anni

I miei giorni più belli: un primo piano di Lou Roy-Lecollinet
I miei giorni più belli: un primo piano di Lou Roy-Lecollinet

Ed è questa passione, travolgente e tormentata, ingenua quanto viscerale, a scardinare gli equilibri drammaturgici del film intero, a malapena contenuta entro i confini di un intreccio in cui Arnaud Desplechin non manca di inserire ulteriori sottotrame, ricollegate a loro volta ad altri aspetti chiave del suo cinema: le relazioni intergenerazionali e familiari, come l'incomunicabilità fra Paul e il padre in lutto Abel (Olivier Rabourdin) e l'affetto per una docente di antropologia, la professoressa Béhanzin (Ève Doé-Bruce), figura in grado di colmare il vuoto dell'assenza materna; la scissione identitaria, simboleggiata dalla cessione del passaporto in URSS e dallo 'sdoppiamento' di Paul; la descrizione nostalgica dell'età adolescenziale, tra feste casalinghe, baruffe goliardiche, aneliti di libertà ed effimeri tradimenti; il bovarismo, cifra emotiva ineludibile nel soffocante ambiente di provincia di Roubaix, contrapposto alla vastità cosmopolita di Parigi.

I miei giorni più belli: Quentin Dolmaire e Lou Roy-Lecollinet
I miei giorni più belli: Quentin Dolmaire e Lou Roy-Lecollinet

Una pluralità di spunti, di suggestioni e di tematiche che Desplechin distende lungo una partitura narrativa incredibilmente variegata ed ariosa, in cui momenti più contemplativi si incasellano con repentine accelerazioni ed ellissi, in cui passato e presente paiono rincorrersi ad ogni piè sospinto, in cui la linearità e la 'pulizia' di una messa in scena mai forzata si colorano di lievi bizzarrie stilistiche (lo split screen, le lettere declamate ad alta voce dai protagonisti con gli occhi rivolti alla macchina da presa). Sono i tratti distintivi di un'opera che brilla per la limpidità dell'ispirazione e per la morbidezza del tocco registico: un racconto di formazione in cui il letterale "ritorno a casa" del Paul adulto coincide con un viaggio nei ricordi non meno intenso e concreto. Perché il passato, sembrerebbe volerci dire Desplechin, è tutt'altro che una terra straniera (come scriveva L.P. Hartley ne L'età incerta): al contrario esso non smette mai di vivere in noi, definisce chi siamo e dove stiamo andando, ci ricattura costantemente nelle sue maglie. E può riemergere, improvviso ed inesorabile, con il furore di un rimorso o con la dolcezza di un bacio rubato.

Movieplayer.it

3.5/5