Be my voice, la recensione: Se la rivoluzione passa dai capelli

La recensione di Be my voice, il documentario sull'attivista iraniana Masih Alinejad che dal 2014 attraverso i social incoraggia le donne iraniane a scoprirsi i capelli in pubblico, come protesta contro l'uso forzato dell'hijab.

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Be My Voice: Masih Alinejad in una foto sul set

"Sii la mia voce" non è solo la frase manifesto che dà il titolo al documentario, ma è l'urlo di speranza che dallo schermo di un telefonino molte donne iraniane rivolgono alla protagonista del film, l'attivista e giornalista Masih Alinejad. La recensione di Be my voice parte da questo grido, il film in sala dal 7 marzo è diretto da Nahid Persson, regista nata a Shiraz in Iran e da anni rifugiata politica in Svezia. Da sempre attraverso le proprie opere denuncia i soprusi del regime iraniano, critica l'acquiescenza dei governi occidentali e la loro ipocrisia, e cerca di raccontare le storie di un popolo oppresso. Racconti di resistenza e disobbedienza civile, come quella portata avanti da Masih contro le limitazioni dei diritti civili e per il rispetto delle donne. Dagli Stati Uniti, dove vive sotto protezione, è diventata la voce degli oppressi nel suo paese d'origine, lo fa quotidianamente attraverso i suoi canali social dove riceve migliaia di video di protesta e testimonianze. Il documentario racconta la sua battaglia di civiltà: la regista infatti, un'attivista come lei, porta lo spettatore nella quotidianità di Masih, un universo fatto di pianti improvvisi, strappi, rabbia, fiori nei capelli e un'ostinata fiducia in un futuro di libertà e "in un mondo di eguaglianza, empatia e sorellanza".

La storia di Masih, voce delle donne iraniane

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Be My Voice: una scena del film

"Non ho detto di voler cambiare tutto il mondo, voglio solo cambiare il mondo intorno a me. Tutti possono farlo", Masih Alinejad ne è profondamente convinta, altrimenti nel 2014 non avrebbe mai lanciato dalla sua pagina Facebook "My Stealthy Freedom" la campagna che incoraggia le donne iraniane a scoprirsi i capelli in pubblico, contro l'uso forzato dell'hijab. La storia narrata da Be My Voice è la sua e inizia a New York, la città che l'ha accolta offrendogli asilo e dove la regista Nahid Persson la raggiunge nel 2019 per seguirla passo passo: Masih è una guerriera, una combattente d'altri tempi, animata da un'inarrestabile energia, è vulcanica, canta, balla e quando non è impegnata a visualizzare i messaggi degli oltre sei milioni di follower su
Instagram o a registrare Tablet, lo show ospitato dall'emittente Voice of America, si dedica alla cura del suo giardino laddove ha piantato un albero per ogni membro della sua famiglia che non vede da dieci anni.

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Be My Voice: Masih Alinejad in un primo piano

Il regime li minaccia costantemente, sua sorella è stata costretta a prendere le distanze da lei in tv, il fratello è stato arrestato nel 2018 e condannato a otto anni, il padre non le parla più, la madre non ha il coraggio neanche di risponderle al telefono. Il documentario ripercorre il suo faticoso cammino di ribellione attraverso filmati inediti, schermi di telefonini che squillano in continuazione, chat di Whatsapp, immagini di repertorio, i video delle migliaia di donne che parlano attraverso la sua voce.

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La rivoluzione dei capelli

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Be My Voice: Masih Alinejad sul set

È una rivoluzione gentile eppure caparbia quella di Masih Alinejad, che passa dal brusio dei profili social e dalle immagini di capelli ricci, liberi, ribelli e al vento: Instagram, Facebook e Twitter sono diventati per le donne iraniane il nuovo modo per esprimere il proprio dissenso. Sullo schermo le scene di vita quotidiana della protagonista si avvicendano ai video di ragazze che sventolano il proprio hijab in segno di protesta, proprio come nel 2018 fece l'attivista passata alle cronache con l'appellativo di "La ragazza di Enghelab Street", ripresa in piedi nel centro di Teheran mentre agita il suo hijab bianco. C'è spazio anche per alcuni vecchi filmati della rivoluzione del 1979 che avrebbe portato all'attuale Repubblica Islamica dell'Iran, un breve excursus per contestualizzare la narrazione e arrivare alle battaglie di Masih, che all'epoca dei fatti aveva appena due anni.

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Be My Voice: una scena del documentario

Lo dimostrano alcune foto ingiallite che scorrono tra un fotogramma e l'altro, in un flusso che sovrappone passato e presente e spezzato dal racconto della protagonista che la sua rivoluzione, dice, l'ha iniziata dalla sua cucina che "era fatta in modo da adattarsi all'altezza di una donna" e dove un giorno decise di mettere una sedia di plastica e chiedere a suo fratello di sedersi per lavare i piatti. Sono i ricordi di un'infanzia trascorsa nel piccolo villaggio di Ghomi Kola, dove il padre li "ha cresciuti poveri temendo che un giorno saremmo comunque diventati poveri", e dove è stata la prima donna a divorziare, a essere espulsa da scuola, a finire in prigione, a restare incinta prima del matrimonio, la prima a diventare giornalista parlamentare e a essere licenziata. Le giornate di Masih trascorrono in una sorta di apparente normalità tra le urla delle donne che continuano a battersi, a farsi arrestare e a resistere inviando testimonianze attraverso i propri smartphone e le notizie di ritorsioni sulla propria famiglia. Sono le stesse che le danno la forza e il coraggio di andare avanti nella speranza di un mondo "senza pianti infiniti, senza disgrazie né miserie", come recitano i versi di una canzone intonata da alcune giovani iraniane nelle sequenze finali del film e che ci piace interpretare come buon auspicio.

Conclusioni

Alla fine della recensione di Be my voice, resta la convinzione di aver assistito alla visione di un’opera dall’indubbio valore civile e politico. È un racconto inevitabilmente militante, non potrebbe essere diversamente: la regista Nahid Persson è un’attivista proprio come la protagonista Masih, entrambe sono rifugiate politiche, ambedue impegnate a denunciare i crimini e le ingiustizie di un regime violento e oppressivo soprattutto con le donne. Una narrazione fuor di retorica, che fa del femminile il suo punto di forza; sullo schermo si alternano volti di donne: madri, figlie, giovani, anziane e bambine. La chiave di lettura è il quotidiano della protagonista e la sua lotta ostinata.

Movieplayer.it
3.0/5
Voto medio
5.0/5

Perché ci piace

  • Un cinema profondamente politico attraverso il racconto senza filtri di una storia di resistenza e disobbedienza.
  • Il modo in cui la regista racconta la storia di Masih Alinejad: una narrazione schietta e lontano dalla retorica.

Cosa non va

  • Chi non conosce il background storico e politico della vicenda potrebbe avere qualche difficoltà a orientarsi tra gli eventi citati.