C'è un vecchio detto secondo cui in ogni gruppo di amici che si rispetti ci sia un outsider. Uno strano, anzi, "quello" strano. Quello che è sempre pronto a fare casino, che ha lo sguardo diverso. Quello costantemente sopra le righe, impenetrabile, a volte incomprensibile anche da chi gli vuole più bene. O lo millanta. Il detto dice che se non ricordi nessuno che corrisponda a questa descrizione allora quello strano sei proprio tu. Probabilmente se l'avessero chiesto a William Friedkin lui avrebbe avuto l'arguzia di puntare il dito verso se stesso. E poi si sarebbe fatto una sonora risata.
Hurricane Billy, Wild Billy, più tardi "Il regista del male", l'enfant prodige nascosto della New Hollywood, il nome dietro i film maledetti degli anni '70. L'uomo che si divertiva a sovvertire le regole, il professionista di cinema (e non solo) che ha fatto della destrutturazione delle convenzioni il leitmotiv di una carriera irripetibile per tutti. Perché per tutti Friedkin sarà per certi versi veramente irraggiungibile, per sempre. Un artista incredibilmente poliedrico, nell'eccezione più godardiana (e quindi politicamente impegnata) del termine, in grado di passare con disinvoltura dal grande al piccolo schermo, per poi cimentarsi con il teatro e la lirica, sempre lasciandosi guidare dalla volontà di essere se stessi senza fare e, soprattutto, farsi sconti.
William Friedkin, morto all'età di 87 anni lo scorso 7 agosto, era un creatore di immaginari, un artigiano del cinema, di una intelligenza e una maestria fuori dal comune e un uomo impossibile da imbrigliare, perché dalla statura intellettuale gigantesca.
Il più giovane regista vincitore del Premio Oscar, che affermò, poco prima di ricevere il Leone d'oro alla carriera a Venezia70, come quest'ultimo sia per lui il riconoscimento più grande mai ricevuto. Quella stessa Venezia che in questa edizione, 10 anni dopo, ospiterà il suo film postumo, The Caine Mutiny Court-Martial, e il restauro per il 50esimo anniversario de L'esorcista, una delle sue pellicole più celebrate.
In questo articolo proveremo ad assolvere all'impossibile compito di ricordarlo selezionando solo 7 tra le sue pellicole, tutte meravigliose perché tutte irripetibili, mai banali, sempre impegnate, sempre curate, sempre nuove, selezionate cercando di restituire un percorso. Chiediamo ovviamente scusa in anticipo per le nostre scelte e vi invitiamo a recuperare l'intera filmografia di William Friedkin. Vi accorgerete, ne siamo sicuri, della sua unicità.
Ecco i 7 film di William Friedkin da recuperare assolutamente.
Festa per il compleanno del caro amico Harold (1970)
Tratta dall'omonima opera teatrale di Mart Crowley, Festa per il compleanno del caro amico Harold (The Boys in the Band) del 1970 è stata la prima pellicola ad Hollywood che ha trattato l'omosessualità, inserendola all'interno di quel lungo discorso di dispersione esistenziale del maschio bianco che il cinema nordamericano dell'epoca stava portando in scena. Quell'idea di coltivare i mostri che nascono quando un mondo sta morendo e l'altro fatica a nascere.
Questo titolo è un esempio dello spirito libero e innovativo di William Friedkin, che si fece carico di un'opera ambigua e che infatti suscitò diverse polemiche, soprattutto provenienti dalla comunità gay (sfociate anche in alcune manifestazioni piuttosto pittoresche).
Il cinema di William Friedkin: il lato oscuro dell'America in 5 film cult
Il film gioca sulle tensioni sessuali e sociali di coppie e gruppi, sfruttando l'analisi del micro (gruppo di amici) per parlare del macro, e divertendosi a "scandalizzare" proponendo una profondità di pensiero all'epoca molto ghettizzata secondo una modalità sapientemente tranchant. Il tutto inserito in una struttura analitica in cui c'è il ribaltamento dell'outsider, dove colui che è emarginato, e dunque fa saltare il banco, è colui che al di fuori del contesto sarebbe quello accettato.
Friedkin dà prova della sua enorme sagacia cinematografica riproponendo la cornice teatrale e girando la pellicola praticamente in un solo interno, "tagliando" l'ambiente con la sua macchina da presa per dare sempre un senso diegetico e politico alla geografia spaziale e facendo risaltare le abilità degli attori, che sono gli stessi dell'opera teatrale.
Il braccio violento della legge (1971)
Cinque statuette agli Oscar del 1972, Il braccio violento della legge (The French Connection) segna il primo capitolo del dittico che porterà William Friedkin all'immortalità nell'immaginario popolare. Ancora una storia vera, ancora un adattamento, com'è costume del regista, stavolta del romanzo biografico di Robin Moore.
Il successo della pellicola parte dal cast, perfetto il duo composto da Gene Hackman (che da lì a poco divenne una star mondiale) e Roy Scheider, facce della stessa medaglia: uno violento e l'altro riflessivo, entrambi persi, in crisi e in balia delle proprie manie.
La scomposizione del poliziesco diviene un'analisi sociale di una potenza analitica incredibile, oltre che da una resa cinematografica sbalorditiva, attraverso l'accompagnamento dei personaggi all'interno di un tunnel di ossessioni primordiali che nasce dall'inferno di una quotidianità cittadina opprimente, oscura e sporca, come le anime di chi compone il triangolo perverso di cui parla il film. L'approccio realistico suggerisce la volontà di Friedkin di una documentazione dei movimenti interiori umani, scatenati da situazioni sempre più provanti ed estreme.
Recensione Friedkin Uncut: in viaggio nel cinema di William Friedkin
La città diviene un teatro desolante, che Friedkin adopera con una precisione chirurgica, facendola diventare man mano la reale protagonista di un capolavoro senza tempo e senza il quale non avremmo probabilmente registi e lavori che hanno riempito i nostri occhi negli ultimi 30 anni.
Ci sono almeno due scene indimenticabili, come l'inseguimento fallito in metropolitana e quello in macchina della durata di 8 minuti, per il quale ci sono volute 5 settimane di riprese e a proposito del quale Friedkin in persona si è detto sorpreso che tutti ne siano usciti interi.
L'esorcista (1973)
Quando un cattolico per nulla praticante incontra uno che invece lo è molto di solito non succede nulla, ma quando il primo è William Friedkin e l'altro è William Peter Blatty allora possono accadere cose spaventose.
L'esorcista (tratto dall'omonimo romanzo del 1971) è la creazione di un canone cinematografico, una pellicola che esce dal genere per crearne un altro partendo dalle componenti sensoriali su cui fa leva la Settima arte e trasportare così lo spettatore in un mondo al di là della propria coscienza quotidiana.
L'esorcista: la spiegazione del finale
Un terrore epidermico che Friedkin crea grazie ad un impianto scenografico ed effettistico stratosferico, anche 50 anni dopo, e ad una regia e ad un montaggio che ancora una volta rivelano la volontà del cineasta di sfruttare i fatti narrati con il suo solito realismo, ideato vivisezionare tematiche umane primordiali e, nello specifico, dando corpo a delle paure figlie di una visione reazionaria, che era quella della società americana dell'epoca. Una pellicola enorme che riflette sul "senso della fede", adoperando l'iconoclastia come un gesto di ribellione verso l'ordine costituto, verso i propri padri, verso le proprie eredità. Un'opera di liberazione che dà accesso a un piano altro, talmente al di sopra dell'uomo da schiacciarlo o ispirarlo.
Il salario della paura (1977)
Remake di Vite Vendute di Clouzot e tratto dal romanzo Le salaire du peur del 1950, Il salario della paura (Sorcerer) è il primo film di Friedkin "post capolavori" in cui non solo il regista decide di andare contro le volontà e le aspettative del pubblico, ma anche contro quelle della critica, trasformando un film di grande considerazione da una pellicola intimista in una riflessione puramente cinematografica sul genere d'azione.
William Friedkin: 10 cose che abbiamo scoperto sul regista de L'esorcista
Un film viscerale che lavora quasi sempre per sottrazione di elementi, ma che, al contempo, continua ad avere una valenza politica straordinaria, stavolta denunciando la violenza della cultura del profitto oltre che del peso di essere un uomo. La glicerina diventa metafora delle potenzialità esplosive di un mondo interiore che vive sotto pelle e che, al di fuori, non fa rumore.
Cruising (1980)
Il movimento della New Hollywood è al tramonto, I cancelli del cielo di Cimino è un flop, esce Vestito per uccidere di De Palma con tutto ciò che ne comporta e William Friedkin fa Cruising, giusto per sollevare un polverone quasi senza precedenti. Il regista arriverà infatti ad essere accusato di aver fatto una pellicola che spinge le persone ad uccidere gli omosessuali e riceverà diverse minacce di morte.
Si tratta probabilmente del film maledetto per eccellenza della carriera del cineasta, che, come disse lui stesso e poi confermò anche Al Pacino, il protagonista, sembrava di filmare in zone di guerriglia urbana, data la violenza dei protestanti.
Cruising: Al Pacino fra eros e morte nel film 'maledetto' di William Friedkin
In realtà il cineasta, come suo solito, voleva cercare di affrontare un genere, il giallo, rielaborandone le regole per utilizzarlo come strumento di vivisezione di un corpo, metafora di un sentimento politico e sociale, che ha le sue radici nelle violenze umane. Meglio ancora se tratto da storie vere, come anche in questo caso.
Cruising è un cult proibito, che vuole riflettere sul sentimento omofobico americano e su come esso possa essere oggetto non solo di un conflitto tra bene e male, ma di un desiderio di conflitto tra bene e male. La conoscenza della comunità gay diviene per il protagonista il modo per scatenare una guerra dentro di lui, che può essere un mezzo per cambiare se stesso, ma anche un moto distruttivo verso l'altro. Il focus diviene quindi ciò che è oltre la scelta. Oltre ciò che è bene e male.
Vivere e morire a Los Angeles (1985)
Indovinate? Si, ancora un adattamento da un romanzo, stavolta però la scelta è causa di un colpo di fulmine.
Friedkin vuole tornare ai suoi livelli, si imbatte in un libro Gerald Petievich, ex agente dello United States Secret Service, capisce che è quello giusto e in tre settimane tira fuori la sceneggiatura di Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A.).
Il film è una sorta di continuazione de Il braccio violento della legge e c'è una sequenza in particolare per testimoniarlo, oltre che lo spostamento da New York a Los Angeles e la riproposizione di una coppia di detective. Ma stavolta con un netto squilibrio di potere a favore del ricercato, un meraviglioso, suadente e irresistibile Willem Dafoe.
William Friedkin: il ribelle di Hollywood che non ama i compromessi
Il poliziesco definitivo degli anni '80, che affonda le sue radici nell'immaginario della decade precedente per cambiare tutto quanto, provando come Friedkin continui sottotraccia un discorso personale, pur attraverso generi differenti.
Los Angeles è un una città di assenze, di desolazioni, di non detti e potenzialità inespresse. Un luogo di perdizione silente, in cui l'uomo della legge vive una sessualità in crisi, dalla cui agitazione deriva anche la sua incapacità di adattarsi ai regolamenti etici. Il senso di colpa è un incidente nato dalla mancanza di una realtà in cui poter vivere. I presupposti sono i medesimi, ma la direzione è tutt'altra. Friedkin rivoluziona ancora, ma guardando alla videoarte, sperimentando con il lisergico, i flash e parlando in maniera metaforica come mai prima d'ora, dando prova di raggiungere anche così una efficacia pari alla documentazione realistica nel trasmettere allo spettatore gli stati d'animo che da sempre lo interessano.
Una pellicola su cosa c'è oltre la morale, oltre il sesso e la sessualità, oltre il genere, l'America e la città. Oltre la realtà stessa.
Killer Joe (2011)
Killer Joe, tratto dall'omonima opera teatrale del Pulitzer Tracy Letts. Questo film non è solo l'aggiornamento del linguaggio poliziesco, che secondo il cineasta è un genere ascrivile al noir dalle tinte pulp, ma anche quello della poetica friedkiana. Un altro capitolo di quel sottotesto che va avanti dagli anni '60.
William Friedkin scuote Venezia con Killer Joe
Il conflitto dell'uomo innestato stavolta in un contesto in cui esso diventa un ago della bilancia squilibrato per definizione, anche se all'apparenza padrone della situazione. Status che proviene dall'accettazione, per un mondo violento e nichilista, sia nei rapporti umani che in quelli con la società e che solo nelle voglie primordiali trova un senso, di qualsiasi tipo esse siano.
La regia è fenomenale. Elegante come sempre, diretta e precisa, perfettamente innestata in un montaggio veloce e travolgente. Un Friedkin ultrasettantenne in forma straordinaria.
Un altro motivo per cui è giusto segnalare questo film è la direzione attoriale, che permette a Matthew McConaughey di fare quel passo che lo condurrà all'Oscar di lì a poco. Giusto un modo per sentenziare come il lavoro di Friedkin sugli attori sia un'altra delle qualità, a volte sottovalutata, per cui deve essere ricordato.