Una fede primitiva
Francia, 1913. Il critico d'arte Wilhelm Unde si trasferisce in un appartamento a Senlis, vicino Parigi: qui conosce Séraphine, una governante diligente anche se un po' eccentrica nei comportamenti. Ciò che l'uomo ancora non immagina è che Séraphine la notte si diletti a dipingere soggetti floreali, con uno stile che la accomuna in parte alla scuola dei pittori primitivisti da lui prediletta: trovato casualmente un quadro di Séraphine, l'uomo ne scorge il talento e decide di farle da mentore, finanziandone le opere. Ma Séraphine, donna dotata di una straordinaria fede, è convinta che il fuoco dell'arte le sia stato trasmesso dall'alto, che il suo lavoro sia in realtà una missione divina.
Già trionfatore ai premi César del 2008, arriva solo ora nelle nostre sale questo Séraphine, fictionalizzazione della vita di una originale pittrice francese della prima metà del secolo scorso, terza opera del regista Martin Provost. La vita di Séraphine (o meglio, la parte di essa che coincide con la sua produzione artistica) è vista sotto il filtro del suo lavoro e della sua incrollabile fede religiosa, che nella visione della sceneggiatura rappresenta un tutt'uno con la sua arte. Il focus iniziale della narrazione è posto sulla grande fede della protagonista, sulla sua convinzione di essere un semplice strumento di un disegno più alto: da qui la sua umiltà, la sua dedizione al lavoro di domestica nonostante la consapevolezza del suo talento, la disciplina quasi sovrannaturale nel dedicarsi alla pittura ogni notte, incurante dei sacrifici che ciò comporta. La simbiosi con la natura, elemento fondamentale nell'arte della pittrice e motivo ispiratore delle sue opere, è rappresentata nel film in tutta la sua potenza: Séraphine abbraccia gli alberi, resta per ore in contemplazione del verde dei boschi, ha una concezione del rapporto con la divinità (che alcuni definirebbero pagana) che significa comunione con il tutto della creazione. E nuova produzione di essa nell'arte. Il film non indugia (quasi) mai a uno sguardo pietistico su una personalità dotata di uno straordinario talento, ma costretta dalle sue condizioni sociali a una vita di stenti, spinta ai margini dall'ottusità delle convenzioni borghesi: la macchina da presa di Provost segue da vicino la vita e il lavoro di Séraphine, ne indaga il quotidiano secondo la sua ottica, svela la semplicità e complessità insieme del suo approccio all'arte. La pittrice è una donna semplice, le sue umili origini le impediscono di interrogarsi compiutamente sul suo talento: nella sua visione, questo è un dono trasmesso dal suo angelo custode, che le ha semplicemente affidato una missione da compiere. Al contempo, la sua è un'arte che comporta tensione, dolore, persino sofferenza: nei motivi floreali da lei creati non c'è placida armonia, non c'è la natura come stasi ed equilibrio, ma al contrario una tensione sempre presente, una lotta elementale, una cromaticità che rimanda al fuoco come elemento predominante. Complemento di elementi opposti sempre in tensione, quindi, paradiso e inferno insieme; non a caso, in una scena del film, una suora chiede a Séraphine se è sicura che sia stato il suo angelo custode a suggerirle quei soggetti. Questi elementi, che Provost lascia emergere dalle opere della pittrice quando queste vanno in primo piano, facendosi intelligentemente da parte, emergono anche nello sguardo di una straordinaria Yolande Moreau, umile e fiero al tempo stesso, a volte inquietante nella sua determinazione portata fino all'autodistruzione. E' anche da rimarcare, nel film, la misura con cui viene descritto il rapporto col personaggio di Unde (anch'esso ben interpretato dal tedesco Ulrich Tukur), mercante illuminato ma non privo di debolezze, in difficoltà nel gestire una personalità complessa come quella di Séraphine: l'uomo si farà carico dei destini della donna, instaurando con lei un rapporto profondo ed intenso, e Séraphine legherà, più o meno consapevolmente, la sua stessa sopravvivenza alla presenza e al sostegno di Unde. Non si può esimersi dal notare, inoltre, l'importanza delle scenografie, naturali e non: dalla cura delle strade della provincia francese, abilmente ricostruita, alla bellezza dei paesaggi naturali da cui la protagonista trae linfa vitale per la sua arte, entrambi messi a rischio dai fuochi di una guerra che resta fuori campo, ma la cui minaccia è ben avvertibile nel corso della storia. E si può in fondo perdonare qualche squilibrio nella seconda parte del film, in cui le condizioni miserevoli prima, e l'aggravarsi della psicosi della protagonista poi, prendono il sopravvento in modo fin troppo evidente, rompendo un equilibrio narrativo prima ottimamente costruito. Resta, comunque, la pregnanza dello sguardo del regista e la vividezza del ritratto che ne risulta, che riesce ad essere anche genuinamente "didattico" senza mai diventare didascalico.
Movieplayer.it
3.0/5