Recensione Punch (2011)

Il film di Lee è una commedia caratterizzata da un approccio che occhieggia fortemente al pubblico, con toni leggeri e personaggi simpatici. Eppure la sceneggiatura, scritta con grande intelligenza, si fa ricordare per la sua credibilità di fondo e il suo realismo.

Un pugno alle avversità

Wan-deuk è un liceale dalla condizione familiare difficile, che è stato abbandonato dalla madre in tenera età e vive in una mansarda insieme al padre e allo zio, entrambi artisti di strada. Il ragazzo tende spesso a cacciarsi nei guai facendo a botte con i suoi compagni di classe, e deve subire anche le angherie (e le prese in giro) di Dong-joo, curiosa figura di professore che vive dirimpetto a lui, e gestisce un centro cultural-religioso in città. Mentre Wan-deuk cerca sfogo alle sue tensioni iscrivendosi alla locale palestra di kickboxing, e il suo odio per il docente arriva al punto di fargli pregare per la sua morte, Dong-joo gli porta all'improvviso una notizia inaspettata: la madre del ragazzo è in città e vorrebbe incontrarlo. Non solo: la donna non è coreana ma filippina. Inizialmente ostile all'idea di conoscere sua madre, Wan-deuk viene poi preso in misura sempre maggiore dalla curiosità.

In questa prima parte del Far East Film Festival, se c'è un film che può essere a ragione definito una sorpresa è proprio questo Punch, diretto da Lee Han (finora considerato uno specialista in storie romantiche) e tratto da un bestseller dello scrittore Kim Ryeo-ryeong. Il film di Lee è sostanzialmente una commedia, e non mancano certo, in esso, i buoni sentimenti, le gag tipiche del genere e un approccio che occhieggia fortemente al pubblico, con toni leggeri e personaggi caratterizzati (tutti) da un buon grado di simpatia. Eppure la sceneggiatura, scritta con grande intelligenza, si fa ricordare per la sua credibilità di fondo e il suo realismo: il tema dell'abbandono, di cui il giovane protagonista è stato vittima, è sempre presente sottotraccia nella narrazione, così come quello delle disparità sociali che finiscono per provocare emarginazione e generare guerre tra poveri, qui trasformate in scaramucce di quartiere, volutamente depotenziate dei loro tratti più drammatici. Lo stesso motivo dell'immigrazione clandestina, e delle dure condizioni che la madre di Wan-deuk ha dovuto sopportare, viene messo a un certo punto in primo piano dal film, mostrando la stessa figura dello scorbutico professore sotto una luce diversa: come non provare simpatia per un personaggio che cita Marx in ogni sua lezione e finisce in carcere per aver dato ospitalità a degli immigrati clandestini?
Lee dirige il film con notevole ritmo e un intelligente senso della comicità, affidandosi in larga parte ai bravissimi interpreti, tra i quali spicca ovviamente la coppia formata dal giovane Yu Ah-in e da Kim Yoon-seok, entrambi nomi di richiamo per il box office coreano, che interpretano rispettivamente l'alunno e il professore: le gag a cui i due danno vita sono gustose e spesso memorabili, e l'affiatamento che la coppia mostra è di quelli tali da decretare, per larga parte, la riuscita di un film. Lo stesso tema del riscatto di Wan-deuk, simboleggiato dalla sua passione per il kickboxing, è trattato con misura e senza enfasi: il vero "pugno" del titolo è quello che il giovane dà alle avversità e ai pregiudizi, compresi i suoi, quelli che gli impediscono di incontrare, e di dare una possibilità, a quella madre che non ha mai smesso di amarlo e di pensare a lui. La risoluzione della vicenda va nella direzione di quell'ottimismo dell'intelligenza, con i piedi ben piantati in terra, che il film fin dall'inizio esprime: una ricomposizione ricca di calore e fiducia, quasi una dichiarazione politica all'insegna della solidarietà e dell'inclusione, con alla base il rispetto per le diversità. L'essere riusciti a dire queste cose in un opera destinata al grande pubblico, e con un linguaggio in grado di arrivare a tutti gli spettatori (compresi quelli occidentali) è un risultato sicuramente non da poco.

Movieplayer.it

4.0/5