Recensione I tre volti del terrore (2004)

Il secondo film di Stivaletti, sin dal titolo, si dichiara come un omaggio a un certo modo di fare horror che ebbe la sua "punta" produttiva negli anni '60 e '70: nonostante i limiti di budget, il risultato è complessivamente soddisfacente.

Un omaggio 'povero' ma sentito

Ben otto anni dopo il suo esordio alla regia con il non memorabile MDC - Maschera di cera, uno dei più noti esperti di effetti speciali italiani, ovvero Sergio Stivaletti, torna alla regia con questo I tre volti del terrore, film dal budget più contenuto, sicuramente più "povero" a livello produttivo rispetto al suo predecessore, ma senz'altro più riuscito artisticamente. Girato in digitale e poi trasportato in pellicola, il film vuole essere, sin dal titolo, un omaggio a un certo modo "artigianale" di fare horror che ha avuto il suo apice negli anni '60 e '70: il titolo echeggia infatti tanto un classico italiano come I tre volti della paura di Mario Bava quanto l'inglese Le cinque chiavi del terrore, diretto da Freddie Francis. Dell'horror di quegli anni il film di Stivaletti mantiene innanzitutto la struttura ad episodi: sono tre le storie che ci vengono presentate, legate insieme dal "collante" dell'episodio-guida in cui il dottor Price, ipnotista e ricercatore (interpretato da un'altra vecchia conoscenza del fantastico italiano, ovvero John Phillip Law) fa (ri?)vivere ai tre protagonisti alcune esperienze sovrannaturali attraverso l'ipnosi.

La parentela del film di Stivaletti con l'horror (soprattutto italiano) dei due decenni '60 e '70 è evidente sin dalle prime scene: il prologo con i giochi del bambino ripresi in dettaglio rimanda esplicitamente all'analoga sequenza di Profondo Rosso in cui l'omicida si divertiva con le sue biglie e bambole, mentre la sequenza che precede l'apparizione dello scienziato sul treno, con la sfera che rotola a terra, è un omaggio alla scena della palla con cui giocava la bambina di Operazione paura di Bava (sequenza che fu a sua volta ripresa da Federico Fellini nel suo Toby Damnit, facente parte dell'horror a episodi Tre passi nel delirio). Gli episodi sono micro-storie horror molto classiche, da cui non ci si può certo aspettare una fine scrittura o trovate di regia particolarmente originali: è da sottolineare però la professionalità con cui il tutto è stato portato avanti, a partire dalla fotografia (a cui il digitale non ha comunque dato quell'eccessivo senso di "casalingo" che ha inficiato la qualità di molte pellicole analoghe), fino alla recitazione degli attori, che contrariamente a quanto accade in molti horror nostrani considerati "di serie A", qui non scende mai sotto i livelli di guardia. La regia di Stivaletti si adatta bene a quelle che sono le premesse del film, mantenendo sempre quella professionalità e sicurezza che dovrebbe essere alla base di qualsiasi buon film di genere, e soprattutto di quell'artigianato cinematografico che il film esplicitamente vuole omaggiare. Da sottolineare anche la colonna sonora, improntata a un progressive-rock figlio delle composizioni di Claudio Simonetti (qui presente come attore, ma non come compositore), ulteriore segno della parentela del film con il florido filone del fantastico nostrano degli anni d'oro. E così, si può tranquillamente passare sopra alle ingenuità di sceneggiatura (anch'esse ormai diventate dei quasi topoi del genere), a dialoghi che certo non rimarranno negli annali del cinema italiano, e agli intrinseci limiti di un'operazione che è stata portata avanti con un budget ridotto all'osso.

La speranza (già ribadita più volte da chi scrive, ma, fortunatamente, dura a morire) è che operazioni di questo genere, per quanto povere e limitate in dimensioni e prospettive di box-office, possano contribuire a risvegliare quella "coscienza" (sia nei giovani registi che nel pubblico) di un cinema italiano di intrattenimento che nei decenni passati ha conosciuto punte artistiche anche molto alte, ma che da anni sembra essere stato, a torto, dimenticato o addirittura rimosso.

Movieplayer.it

3.0/5