Un giorno di ordinaria guerra
Guerra vera, guerra simulata, guerra rimpianta e rincorsa nonostante tutto, seguendo un sogno di morte. E' sull'alternanza di questi tre piani che si gioca At the End of the Day - Un giorno senza fine, thriller d'azione con venature horror, esordio alla regia del romano Cosimo Alemà. Sette giovani si recano in un bosco di un'imprecisata località europea (o almeno così supponiamo: il setting è lasciato volutamente nell'indeterminatezza) per un match di Soft Air: le armi, l'equipaggiamento, le tattiche della guerra moderna per uno scontro in cui, invece dei proiettili, vengono sparati innocui pallini di gomma. Una perfetta simulazione che provoca scariche di adrenalina che in teoria lasciano fuori l'elemento principale della situazione simulata: il pericolo. Ma sullo stesso palcoscenico, c'è qualcuno che la pensa diversamente: qualcuno a cui non basta l'adrenalina, qualcuno che vuole vedere scorrere il sangue, a costo di versare il proprio. Qualcuno che non sopporta che le "eroiche" imprese del passato abbiano trovato il loro termine: la caccia umana è diventata una dipendenza, prendere la vita di qualcun altro una necessità irrinunciabile. E così, in un attimo, la simulazione diventerà realtà, il gioco una reale partita per la vita. Fino alle estreme conseguenze.
Per il suo esordio nel lungometraggio, il regista di videoclip Alemà (tra gli artisti da lui diretti, Tiromancino, Verdena, Luciano Ligabue e Afterhours, solo per citarne alcuni) sceglie il genere thriller ed un piglio movimentato, nervoso, tutto improntato all'azione. La macchina da presa, rigorosamente digitale, è sempre mobile, il più delle volte viene portata a spalla, segue da vicino i personaggi e ne spia le angosce e il terrore montante da una parte, la spietata determinatezza dall'altra. L'uso del digitale conferisce all'immagine un dettaglio notevole, una resa in termini di definizione superiore alla norma: i volti dei personaggi ne giovano (specie quando ad essere ripreso è l'inquietante Michael Lutz, un villain col fare e l'espressività di un vero criminale di guerra), ma ad avvantaggiarsene soprattutto è la resa degli ambienti naturali, il verde lussureggiante che diventa nascondiglio per mortali pericoli, la luce del sole che non rassicura ma inquieta, ultima, disperata visione dopo che una mina antiuomo ti ha portato via un arto e, tra breve, ti priverà anche della vita. Un palcoscenico apparentemente indifferente, in cui animali, insetti e piante vengono ripresi in un'abbondanza di dettagli, ma non sembrano curarsi della tragedia che si svolge davanti a loro. Probabilmente, ne hanno già viste tante, troppe. I riferimenti filmici della pellicola di Alemà sono evidenti e tutti orientati verso il cinema d'oltreoceano, da un antesignano del genere come La pericolosa partita di Ernest B. Schoedsack all'incubo rurale di Un tranquillo week-end di paura di John Boorman, fino all'indimenticata caccia mortale, sullo sfondo delle paludi della Louisiana, de I guerrieri della palude silenziosa di Walter Hill. Di questi esempi, citati con rispetto, il film riprende il ritmo e le suggestioni, la tensione e le inquietudini, ma non ha il coraggio di replicarne le riflessioni o (meglio) di produrne di sue. I dettagli insistiti sugli elementi naturali non servono se non si produce perlomeno un abbozzo di riflessione sulla bestialità umana contrapposta a quella animale, sul rapporto tra uomo e natura, cultura e assenza di essa. Se si vuole inserire in un prodotto di genere elementi autoriali che stimolino un discorso a più ampio raggio, si deve avere il coraggio di affidarsi a una sceneggiatura meno schematica, che dia più spazio ai caratteri e alle motivazioni dei diversi personaggi: lo stesso discorso sulla guerra, che in teoria dovrebbe essere uno degli elementi principali della sceneggiatura, non è che abbozzato, e in fondo la morale (la guerra, se la si innesca, anche solo per gioco, non la si ferma) è fin troppo semplice e pure discutibile. I limiti di sceneggiatura del film diventano evidenti specie nella parte finale, in cui alcuni dei protagonisti si abbandonano a scelte poco sensate e illogiche.
Resta la notevole cura tecnica del prodotto (pensato per essere venduto soprattutto sul mercato estero: e si vede), l'indiscussa perizia del regista, il senso del ritmo e della tensione già ben delineati, caratteristica non da poco per un esordiente. Il rammarico è dato da una pellicola che poteva essere di più e di meglio di un semplice thriller, pur ben confezionato: le potenzialità di questo At the End of the Day - Un giorno senza fine restano solo intuibili, in singole, interessanti soluzioni di regia che restano elementi isolati, non sorretti da uno script veramente valido. Alemà, comunque, avrà tempo e modo di dire ancora la sua.
Movieplayer.it
3.0/5