"La più grande fuga di segreti nella storia dell'FBI". Così recita la locandina italiana di Breach - L'infiltrato, in uscita venerdì 18 maggio nelle nostre sale, film di Billy Ray ispirato alla storia vera di Robert Hanssen, agente operativo dell'FBI condannato nel 2001 all'ergastolo per aver venduto ai sovietici, nell'arco di oltre venti anni, informazioni segrete, e quindi colpevole di tradimento contro l'America. A Roma, per la presentazione del film, c'è uno dei protagonisti originali di quella vicenda, Eric O'Neill, l'ex agente dell'FBI, interpretato sul grande schermo da Ryan Phillippe, che incastrò Robert Hanssen e permise il suo arresto.
Signor O'Neill, perché secondo lei Robert Hanssen ha scelto di spiare per conto dei sovietici?
Eric O'Neill: Hanssen è arrivato a New York quando era un giovane agente e non poteva permettersi di vivere a Manhattan. Ha sposato una donna molto più ricca di lui, con la quale ha avuto due figli. Hanssen era un uomo con un ego smisurato, che non mostrava rispetto per nessuno, pensava di essere un super-genio e che le altre persone non valessero niente. Non guadagnava abbastanza per avere lo stile di vita che sognava di fare e quando ha visto che nessuno gli prestava ascolto ha cominciato a vendere informazioni ai russi. Il secondo giorno in cui sono stato in ufficio con Hanssen è stato proprio questi a dirmi che "la spia si trova nella posizione peggiore, con informazioni segrete che tante persone pagherebbero molto".
Hanssen ha patteggiato la pena all'ergastolo nel maggio del 2001, ammettendo di aver collaborato con l'Unione Sovietica. Per lui c'era la possibilità della pena di morte.
Hanssen era stato condannato alla pena di morte perché aveva venduto segreti importantissimi ai sovietici sulla posizione dei missili e aveva causato sicuramente la morte di due agenti. E' stata utilizzata la possibilità della pena di morte per fare pressione su di lui e farlo parlare, perché quello che ci interessava non era tanto il perché, ma il cosa avesse fatto. C'era un urgente bisogno di stimare i danni provocati dal suo tradimento. Catturare Hanssen è stato un lavoro fondamentale per la sicurezza nazionale, perché era una persona che sapeva tantissimo.
La storia di Hanssen è raccontata nel film dal suo punto di vista. Da dove è partita l'idea iniziale?
Sono stati scritti sei libri sul caso Hanssen e nessuno di questi menziona me, perché all'epoca ero ancora sotto la copertura dell'FBI. L'idea di un film è venuta a mio fratello che è un aspirante sceneggiatore a Hollywood. Una sera di fronte ad una birra gli raccontavo le sensazioni che provavo nello stare nella stessa stanza di Hanssen e a lui è venuta quest'idea di farne un film.
Perché ha scelto di lasciare l'FBI dopo questo caso quando il suo sogno era proprio quello di diventare un agente operativo?
A quell'epoca avevo ventisei anni, un'età in cui tutti guardano al futuro, cercando di decidere quello che si vuole veramente fare. Lavoravo per l'FBI già da cinque anni e facevo parte di un gruppo che effettuava pedinamenti, come si vede all'inizio del film. A quei tempi volevo diventare un agente, ma poi ho deciso di optare per una vita più tranquilla, così ho continuato i miei studi in legge e sono diventato un avvocato.
Si è pentito di questa decisione dopo l'11 settembre?
In quel momento ho desiderato di non aver mai lasciato l'FBI perché pensavo che stando lì avrei potuto lavorare con i miei colleghi 24 ore su 24 per aiutare la mia nazione. E' stato un momento molto triste perché mi sono sentito battuto, sconfitto dai terroristi.
Come giudica l'atteggiamento del governo statunitense dopo gli attentati dell'11 settembre?
L'effetto perverso del terrorismo è la limitazione delle libertà personali di ognuno di noi e i governi di oggi devono capire quanta di questa libertà è giusto limitare. Penso che gli Stati Uniti, così come altri paesi, stiano cercando il modo migliore di affrontare il terrorismo. Forse l'unico sbaglio del mio paese è stato quello di agire in maniera egoistica per difendere i propri cittadini.