Tagli che pesano
Anche quanti - come chi scrive - non hanno mai avuto particolare stima per il Cameron Crowe regista si trovano ora costretti ad ammettere una cosa: Crowe non è di quegli autori incapaci di autocritica nei confronti del proprio lavoro ed è stato abbastanza intelligente da capire da solo cosa non funzionava nella versione di Elizabethtown presentata al festival di Venezia. O perlomeno da ascoltare i buoni consigli di quanti magari gli suggerivano sforbiciate o cambiamenti.
Il cut di Elizabethtown che arriva ora nelle sale accorcia infatti il film di una ventina di minuti circa, e tutti gli interventi hanno colpito quelle che erano le parti più deboli del film: da un lato la farraginosa sezione centrale, nella quale sono state sintetizzate molte delle vicende riguardanti il rapporto tra Drew ed il parentado del Kentucky, evidenziando invece quello tra il ragazzo e Claire; dall'altro è stato eliminato del tutto il fastidioso e stonatissimo finale che vedeva la carriera di Drew rinascere ingiustificatamente dalle ceneri di quell'enorme fiasco che invece programmaticamente apriva ed apre tutt'ora il film. Cambiamenti, specie il secondo, che modificano radicalmente il senso dell'opera e il suo percorso, che gli regalano un nuovo significato, che ne fanno sostanzialmente un film decisamente migliore.
Ora, se questo è vero, è altrettanto vero che Elizabethtown non è assolutamente non privo di difetti - imputabili soprattutto alla sensibilità e alla "poetica" del regista e alla totale mancanza di carisma del protagonista Orlando Bloom - , ma se il giudizio relativo alla versione veneziana era irrimediabilmente negativo, questa nuova versione permette riflessioni più accomodanti.
La trama, nei suoi aspetti più basilari - dal viaggio di Drew alla (ri)scoperta delle sue radici all'incontro con Claire e conseguente storia d'amore - non è particolarmente originale ed è frutto come detto dell'idea di cinema (di vita?) di Cameron Crowe, affetto da una sorta d'inguaribile ottimismo e portato alla rimozione dei conflitti. Ma se si sposta il fuoco dell'osservazione e si va oltre, si può dare di Elizabethtown una lettura più ampia, che trascende le vicende dei singoli e arriva a riguardare gli Stati Uniti d'America tutti.
Elizabethtown racconta di un sogno professionale (un sogno americano) che s'infrange sulle scogliere del troppo spesso ignorato fallimento e non a caso si parte da una grande azienda di sneakers, chiara parafrasi di uno dei simboli dello strapotere economico-culturale degli States nel mondo. Il film parla della necessità per il protagonista (per il paese) di ritornare alle origini, di sanare una frattura tra le coste metropolitanizzate e cosmopolite e quella sterminata e indefinita provincia conservatrice che ha regalato la vittoria a George W. Bush. Ed è in questa chiave che ancora più bello appare il momento più alto di tutto il film, quello del viaggio on the road che Drew intraprende con la guida indiretta di Claire e che lo porta attraverso strade e luoghi simboli degli Stati Uniti d'America e della loro storia recente (e non).
Il viaggio di Drew - quello del film tutto - non solo quindi come viaggio interiore del protagonista ma anche e soprattutto come viaggio interiore di un'America che, giunta sull'orlo della crisi, deve guardarsi dentro per ritrovarsi e ricominciare, conscia della necessità di affrontare i fallimenti e di accettarli come nuovi punti di partenza. E si capisce quindi quanto in una lettura del genere - l'unica per noi in grado di nobilitare il film e di renderlo qualcosa di più di un medio, leggermente ruffiano prodotto d'intrattenimento - stonasse il successo professionale di Drew che chiudeva il cut veneziano.
In chiusura, una piccola nota: ammettiamo che la colonna sonora del film è valida ed affascinante, ma oramai lo sanno anche i sassi che Crowe di musica capisce. E allora perché il regista pare volerci sfacciatamente ricordare questa sua competenza ad ogni piè sospinto, infarcendo tutti i suoi film con tanti, troppi brani?