Sbadigli italo-americani
Per la sua prima opera da regista, Carlo Ventura, calabrese emigrato negli Stati Uniti che si è fatto le ossa come dialogue coach con registi quali Bertolucci, Coppola e Fassbinder, sceglie di mettere in scena una storiella vagamente autobiografica con uno scopo ben preciso: smantellare lo stereotipo dell'italo-americano, alimentato tra l'altro anche da una serie di grande successo come I Soprano, tutto mafia, sentimento e mozzarella, che si strugge mentre ascolta alla radio O sole mio e Torna a Surriento e va in giro a vendicare il suo onore e rivendicare le sue radici. Ventura, cresciuto ad Utica, una desolata città nel cuore dello stato di New York, decide di ambientare in questo luogo che ben conosce la vicenda di una famiglia italo-americana dei giorni nostri. Protagonisti Santino (Daniele Passaro), uno scapestrato delinquentello che vive nel mito de Il padrino, ma sogna le spiagge di Miami, e sua madre Maria (Mariangela Melato), vedova dal cuore d'oro che ha sempre una parola buona per i suoi vicini di casa immigrati e che senza rendersene conto manda all'aria i piani criminali del suo ultimogenito e dei suoi amici che sperano di raggranellare nel modo più semplice i soldi per andare via da quel posto.
Vieni via con me è uno splendido esempio di sceneggiatura sbagliata. I personaggi sono inconsistenti, manca una loro rivelazione progressiva (vengono presentati in modo sommario, restano oscure funzioni ed intenzioni e alla fine di loro si conosce ben poco e, francamente, neppure ci interessa saperne di più), lo sviluppo degli eventi è così insulso da far rabbrividire, così come ridicola è la risoluzione dei conflitti (su tutte la scena della stazione, triste emblema anche delle scarse capacità di Ventura regista), non c'è un'adeguata alternanza di stati, tempi ed intensità e le situazioni forzatamente comiche servono solo ad ostacolare gli sbadigli dei poveri spettatori. Difficile credere che una sceneggiatura simile sia passata attraverso tredici tra revisioni e riscritture durante l'arco di sette anni tant'è la sua pochezza.
Prodotto da Tilde Corsi e Gianni Romoli, il film, girato tutto in digitale, ha potuto beneficiare del contributo governativo per le opere di interesse nazionale. D'interessante, però, in questa insipida commediola, non c'è niente. Il pretesto del teppistello che nella caccia al sogno americano finisce col ribaltarsi insieme ad esso non funziona e nessun elemento contribuisce a scalfire la noia che tutta l'opera trasuda. Anche la iena Enrico Lucci, qui alla sua prima esperienza cinematografica, si limita a travasare il suo personaggio dalla cornice televisiva a quella del quadretto dal quale parla a sua moglie, tormentandola dall'aldilà con consigli che Maria il più delle volte si rifiuta di ascoltare, decisa a dare un taglio al passato e a non soccombere alla nostalgia dell'Italia.
Vieni via con me è un film inutile, inficiato da una sceneggiatura vuota, una recitazione dilettantistica (eccezion fatta per la volenterosa, ma comunque arrugginita Melato), una regia spenta ed inesperta e una colonna sonora che sembra commentare un altro film, perché la passionalità e il sapore mediterraneo delle musiche di Gragnaniello mal si associano con personaggi e situazioni così aride.
Perciò, all'invito del titolo la risposta non può che essere una soltanto: no, grazie.