La donna perfetta non esiste
Lui, lei e l'altra; nel corso degli anni il cinema ha individuato in questo eterno triangolo un numero infinito di varianti sentimentali che, dal melodramma alla commedia, hanno offerto ad ogni regista, più o meno esperto, la possibilità di dire la sua sul menage à trois. Una tentazione, questa, cui non è riuscito a resistere neanche Maurizio Casagrande che, per il suo esordio dietro la macchina da presa con Una donna per la vita, sceglie di raccontare l'avventura di un uomo normale alle prese con due compagne fin troppo speciali. Marina, eternamente in ritardo e fisiologicamente predisposta a gettare scompiglio nelle vite di chi le si avvicina, sembra predestinata a vestire il ruolo della fidanzata abbandonata per pura sopravvivenza. La capigliatura cespugliosa unita ad una sbadataggine senza possibilità di ritorno ne fanno una creatura tenera ma, al tempo stesso, letale. Al contrario Nadine, esotica nel nome come nell'aspetto, sembra incarnare la perfezione di una bellezza algida da desiderare senza ripensamento. Tanto è chiassosa e ingombrante la prima dietro enormi occhiali fashion, quanto è rilassante e rasserenante la seconda nel suo abbigliamento sofisticato. Eppure oltre l'apparenza di entrambe si nascondono dei lati segreti con i quali lo sconcertato Maurizio, concierge in un hotel di lusso, dovrà confrontarsi senza possibilità di scampo. Perché si sa che la realtà non è mai come appare, tanto meno quella nascosta dietro il sorriso ingannevole di una moderna Circe dalle origini francesi.
Ed è proprio sul tentativo di celare e camuffare la verità che ruota l'intero film di Casagrande. Un trucco che, probabilmente, l'attore di formazione teatrale ha appreso dagli autori classici, abituati a mascherare l'evidenza dei fatti sotto le forme del sogno per confondere e illudere lo spettatore fino alla fine dell'ultimo atto. Una tecnica, questa che, nonostante abbia ottenuto grandi successi sulle assi del palcoscenico, non riesce ad essere sempre altrettanto efficace sul grande schermo se non accompagnata da un linguaggio fluido e da una particolare attenzione per la sintesi. Due elementi che Maurizio Casagrande non è riuscito a controllare con padronanza, lasciandosi prendere la mano da una lunghezza eccessiva e da una struttura costantemente cadenzata da sketch comici che finiscono con l'appesantire l'intera narrazione. In questo modo, il film risente di un ritmo altalenante imposto da un cast fin troppo numeroso, il cui scopo si comprende parzialmente solo allo scorrere dei titoli di coda. Perché, se si possono considerare utili alla vicenda il dottore dall'animo rock interpretato da Neri Marcorè, la cameriera nemica dei microbi e il frate rappacificatore con il volto di Giobbe Covatta, rimangono privi di significato le "apparizioni" quasi invisibili dell'avvocato Pino Insegno, dell'agente immobiliare Salemme e del napoletano cafone con cui Biagio Izzo apre il film, impegnandosi nell'ennesima variante di una macchietta ormai troppo sfruttata. Diverso, invece, è il lavoro svolto da Sabrina Impacciatore che, concentrandosi sull'eccesso fisico ed emotivo di Marina, regala ad un film fatto di continue comparse e scomparse un guizzo di folle ironia costruendo con particolare attenzione il profilo di una donna bambina in cui l'iniziale leggerezza si trasforma in testarda affermazione del proprio amore. Così, dietro un trucco eccessivo, una pettinatura eternamente scomposta ed un abbigliamento da eterna lolita, si nasconde il personaggio più onestamente comico di tutto il film. L'unico che, apparentemente inconsapevole dei propri limiti, non si lascia fermare dalla sua naturale attitudine ai disastri, ma, sempre sorridendo di se stessa, accetta la sfida quasi impossibile di tenere le fila del discorso e condurre il film verso una conclusione fortunatamente inaspettata.
Movieplayer.it
2.0/5