Recensione The Lunchbox (2013)

Esordio alla regia dell'indiano Ritesh Batra con una delicata commedia sentimentale che parla di cibo, amore, solitudine e speranza. Prodotto con il TorinoFilmLab, lontano dalle chiassose e colorate suggestioni del cinema di Bollywood, questo piccolo film conquista con la semplicità di una storia d'amore epistolare che stupisce per la profondità delle riflessioni e la serietà del suo registro.

You've got lunch

Quello dei Dabbawallahs (Dabba è il titolo originale del film) è uno dei tanti "miracoli" di Mumbai, la città più densamente popolata dell'India: sono i trasportatori che ogni giorno consegnano circa 200.000 pasti caldi direttamente dai fornelli delle abitazioni nelle periferie fino alle scrivanie degli uffici del centro. Un sistema di consegna impeccabile, studiato anni fa anche dall'Università di Harvard, che è rimasto praticamente immutato dalla fine dell'800 e che consente a impiegati e studenti di mangiare ogni giorno il cibo preparato a casa: una staffetta di più di cinquemila fattorini che si muovono tra biciclette e treni locali, un sistema perfetto nel caos dei milioni di abitanti che a loro volta si muovono da casa al lavoro, che mediamente contempla un solo errore ogni milione di consegne. E proprio questo lunchbox, quell'uno su un milione che viene consegnato per errore all'indirizzo sbagliato, fornisce all'esordiente regista Ritesh Batra, il pretesto per raccontare questa sorprendente storia di amore "epistolare" che è molto di più di una commedia sentimentale in agrodolce. The Lunchbox, premiato dal pubblico a Cannes alla Settimana della Critica, prodotto e sviluppato in collaborazione con il TorinoFilmLab, è un piccolo miracolo di poesia e semplicità, che parla di cibo, di solitudine e di sentimenti che si risvegliano; e di come il caso, il destino e soprattutto la speranza di un amore possano rimettere in moto il desiderio di vita. Ila (Nimrat Kaur) è una casalinga che riversa tutta la sua passione nelle ricette che prepara per il marito che invece la trascura. Ma per errore il suo paniere viene recapitato ogni giorno sulla scrivania di Saajan (Irrfan Khan), impiegato alle soglie della pensione dopo 35 anni di lavoro all'ufficio reclami, vedovo e solitario.


La frustrazione di Ila per la mancanza di attenzioni del marito, che non sembra neanche accorgersi che il cibo che mangia non è preparato da sua moglie, la spinge a scrivere a questo sconosciuto che invece sembra apprezzare le sue ricette e la sua cucina, per ringraziarlo di questa soddisfazione involontaria che gli ha provocato facendole tornare a casa il cestino completamente ripulito. Tra Ila e Sajjan comincia uno scambio di lettere, che porta i due a confessarsi le loro solitudini, le loro paure, le nostalgie per i sogni andati. Nella grande città, tra milioni di individui che ogni giorno si accalcano l'uno sull'altro, scontrandosi senza mai incontrarsi, senza mai fermarsi a pensare alla propria vita, un uomo e una donna che non si sono mai visti, che una possibilità su un milione ha messo per caso in contatto, condividono invece un'intimità che la metropoli rende impossibile e si soffermano a pensare a cosa ne sarà delle proprie vite. E grazie al miraggio di un amore ricominciano a sperare. Un film assolutamente off-Bollywood, fuori dai canoni colorati e variopinti del chiassoso cinema di genere indiano, una commedia sentimentale totalmente inedita nel suo rigore formale e soprattutto nel non abbandonarsi mai, neanche per un momento, ad alcun cliché o al facile romanticismo, inevitabile di solito nelle commedie rosa di genere di produzione internazionale.

"La strada del cuore passa attraverso lo stomaco", ma questa non è una commedia culinaria che segue la moda del momento: le riflessioni sull'esistenza che si scambiano per lettera i due protagonisti, il risveglio delle loro speranze imprigionate nella solitudine di un matrimonio incolore o dalla gabbia invisibile di un passato perduto, sono sorprendentemente profonde, mai banali, come le righe che i due si scrivono, e che raggiungono dei momenti di delicatezza e poesia non comuni nella loro semplicità. I due straordinari protagonisti, misurati, intensi nella loro austera serietà, sono sempre credibili anche quando la storia assume i contorni della favola: sentono le stesse canzoni, vedono le stesse immagini, vivono le stesse situazioni, condividono senza conoscersi, ed è il potere della condivisione e il desiderio di essa che li risveglia, ancora prima dell'amore, che rimane inespresso, solo evocato, perché "dimentichiamo le cose quando non abbiamo qualcuno a cui raccontarle".
La metropoli sullo sfondo è l'altra protagonista, con i suoi ritmi e la sua frenesia, le persone in continuo movimento, le molteplici realtà all'interno di Mumbai, mondi diversi uniti da un filo sottile: nella versione originale i protagonisti parlano in inglese o in hindi a seconda della classe sociale, e questo li rende ancora più distanti, e rende ancora più miracoloso il loro trovarsi. "A volte il treno sbagliato ti porta alla stazione giusta", la fiducia nel caso e nel destino, che ci lascia con la possibilità di credere che tutto possa accadere nella vita, che si possa ritornare a sperare, sono la vera forza del film: il desiderio di cambiamento, di tornare ad essere felici, che grazie ad un piccolo miracolo avviene dentro di noi, è più importante di qualsiasi scontato happy ending. Si esce dal cinema con pudica commozione, voglia di un piatto di agnello speziato con naan, e di cercare sull'atlante il Bhutan, dove "invece del prodotto interno lordo, hanno la felicità interna lorda".

Movieplayer.it

4.0/5