Padre nostro
David Wozniak è il classico Peter Pan quarantenne. Un lavoro portato avanti svogliatamente nella macelleria di famiglia, nessuna voglia di assumersi responsabilità, una compagna che fa la poliziotta ed è stanca della sua mancanza di concretezza. David, inoltre, ha contratto un enorme debito con degli individui poco raccomandabili, che ora stanno facendosi avanti per riscuotere il dovuto. All'improvviso, però, accadono due cose che saranno destinate a cambiare per sempre, che lui lo voglia o no, la sua vita: la prima è l'annuncio, da parte della sua compagna Valerie, di essere incinta; la seconda è la visita di un avvocato, rappresentante di una banca del seme, con una notizia ancora più sconvolgente. A David, infatti, viene ricordato di quando circa 20 anni prima aveva fatto una serie di donazioni del suo sperma presso la clinica, in cambio di denaro: ora, il legale gli comunica che è padre biologico di ben 533 ragazzi, 142 dei quali hanno manifestato il desiderio di conoscerlo. Nonostante la legislazione preveda, teoricamente, l'anonimato del donatore, i ragazzi sembrano decisi a sfruttare una sua presunta falla: il nutrito gruppo ha intentato così una causa legale, con lo scopo di scoprire l'identità del misterioso donatore, ribattezzato Starbuck.
Risale in realtà al 2011, questa gustosa commedia diretta dal regista canadese Ken Scott. Un "recupero" legato probabilmente (anche) all'imminente remake statunitense, che lo stesso Scott ha già diretto sotto l'egida di Steven Spielberg; ma che non cancella l'interrogativo sui motivi di una distribuzione tanto tardiva, per un film che, pur senza volti noti nel cast, presenta ottimi potenziali commerciali. Già presentato, con ottimi riscontri, in varie manifestazioni internazionali (si ricordi il terzo posto al Toronto International Film Festival) Starbuck - 533 figli e ...non saperlo muove da uno spunto che può apparire poco credibile, se non addirittura pretestuoso. L'idea di un uomo che scopre di essere padre di oltre 500 figli sembra una specie di provocazione, una bizzarria che in teoria, sul piano legale, può trovare pochi riscontri nella realtà (anche per la rigidità delle legislazioni sulla privacy che, nella maggior parte dei paesi, regolano la materia). Eppure, al di là del fatto che lo stesso regista dichiari di essersi ispirato ad un fatto reale (un uomo che avrebbe scoperto davvero la paternità di 500 bambini) la credibilità della vicenda viene garantita soprattutto dall'ottima sceneggiatura, opera dello stesso Scott e di Martin Petit. Alternando registri comici, grotteschi e sentimentali, lo script restituisce un quadro che riesce a strappare risate ma anche a stimolare qualche riflessione. Quello di David è un personaggio divertente ma fondamentalmente solo: i suoi tragicomici tentativi di tenere insieme pezzi di vita che non ha ancora imparato a far convivere (vedi l'episodio delle maglie della squadra di calcio) provocano sorrisi che in molti casi diventano amari. Centrato sempre e solo su se stesso, e sulla paura di essere abbandonato, anche dalle poche persone che gli sono rimaste vicine (suo padre, la sua compagna, il suo amico avvocato) David inizia a cambiare quando la sconcertante scoperta lo porta, per la prima volta, a fare i conti con una sua responsabilità. E' un cambiamento che l'uomo sperimenta quasi suo malgrado, con quella curiosità che lo spinge a verificare che cosa abbiano prodotto i suoi geni, quali siano le vite, i sogni e le delusioni di coloro che li hanno ereditati. Così, David entra nella vita di questi ragazzi praticamente in punta di piedi: laddove la sceneggiatura potrebbe spingere maggiormente sul pedale del grottesco, e della risata facile, la narrazione diventa al contrario intima, profonda, tutta tesa a sottolineare la voglia di avvicinamento di questo padre sui generis. Così, il protagonista trova un po' di tutto, nella sua esplorazione: il giovane campione di calcio, la minorenne tossicodipendente, il ragazzo gay, il disabile. Sarebbe stato facile, con personaggi così codificati (e, in molti casi, forzatamente abbozzati) cedere agli stereotipi; ma il film mantiene al contrario un'apprezzabile delicatezza, nella descrizione delle interazioni del protagonista con questa variegata umanità giovane. In tutto ciò, la regia resta sempre un passo indietro rispetto ai personaggi, bandendo i virtuosismi e limitandosi a sottolineare la trasformazione di questo tardo-adolescente (finalmente) cresciuto; mentre, dall'altro lato, le interpretazioni si rivelano tutte assolutamente apprezzabili: in particolare, il protagonista Patrick Huard si segnala come il miglior Starbuck possibile, con un'aderenza fisica perfetta al "tipo" che il personaggio rappresenta; ben affiancato, in questo, da una Julie LeBreton che ne è perfetto contraltare, e da un divertente Antoine Bertrand nel ruolo dell'amico avvocato. Gli stereotipi che affiorano, qua e là, sulla vita familiare e sui suoi rituali, non disturbano più di tanto: non bisogna dimenticare che in fondo è proprio questo il tema del film, e che una certa misura di tali stereotipi, oltre a essere inevitabile, non fa che riflettere (anche simpaticamente) la realtà della vita quotidiana. Così come non disturba il tono da fiaba, l'inevitabile happy ending, la natura fondamentalmente edificante della vicenda: con un altro approccio, saremmo forse di fronte a un prodotto tra il gratuitamente provocatorio e lo stucchevole. Eppure, la freschezza e l'evidente sincerità della narrazione salvano egregiamente, e rendono godibile, il tutto. Ci si chiede, legittimamente, se un analogo risultato verrà raggiunto dal regista in terra americana, con la nuova versione della vicenda già intitolata, eloquentemente, Delivery Man.
Movieplayer.it
3.0/5