Due sulla strada
Identificare un film come un percorso emotivo quasi privo di dialoghi è sempre pericoloso per il futuro dell'opera in sala. Il rischio più grande è quello di spaventare lo spettatore, prospettando novanta o forse più minuti di immagini montate con lentezza esasperante in totale assenza di suoni umani. Eppure, ci sono dei casi in cui è proprio questa essenzialità del racconto a rendere l'esperienza cinematografica unica e poetica, senza necessariamente dilazionare la temporalità in modo estenuante o identificare l'insieme come ermetico. Anzi, l'effetto finale ottenuto dal regista argentino Pablo Giorgelli con la sua opera prima Las acacias è quanto di più naturale e spontaneo si sia riprodotto sul grande schermo. Perché, a pensarci bene, nella quotidianità di un uomo è spesso l'iperattività e il flusso continuo di parole a risultare innaturale, mentre il silenzio e il dialogo interiore sono compagni fedeli su cui poter contare quotidianamente. A vivere in questa condizione è Ruben, camionista di mezza età che, viaggiando spesso dal Paraguay all'Argentina per consegnare del legname, si trova costretto a condividere una delle sue tratte con una giovane donna e una bambina di pochi mesi. Improvvisamente, nell'abitacolo ristretto e inviolato del suo camion entra un mondo sconosciuto attraverso quei rumori e gorgoglii tipici di una vita appena iniziata, incapace di esprimersi chiaramente ma in grado di esercitare un fascino cui è difficile resistere.
Così, utilizzando l'elemento esterno come variabile inaspettata, il regista costruisce un racconto fatto di attese, sospensioni e punti di vista soggettivi in cui due esseri umani iniziano a raccontarsi, mettendosi in gioco in un dialogo basato sulle rispettive diffidenze e su di un dolore comune che non ha bisogno di essere svelato completamente per capirne il peso e l'impatto esercitato sulle loro esistenze. In questo senso, raramente un film è riuscito nel tentativo di esprimere così tanto e profondamente utilizzando pochi mezzi. Spinto dalle difficoltà economiche e da una sensibilità accentuata da un'esperienza personale di solitudine e isolamento, Giorgelli ha trasformato la telecamera nell'unico mezzo in grado di riflettere le trasformazioni emotive trasmesse dai volti dei suoi protagonisti. Così, costantemente "prigionieri" dell'abitacolo, gli interpreti German de Silva e Hebe Duarte sono costretti ad entrare in connessione con la parte più nascosta di loro stessi e, ad un certo punto, a condividerla con l'altro. Unico testimone è il regista che, senza lasciare loro molto scampo, indaga da il variare delle espressioni fino a percepire e rendere udibili anche i pensieri che affollano le loro menti. In questo senso, e non perché i personaggi si trovano fisicamente in movimento, questo film può essere considerato come un viaggio dell'anima in cui il paesaggio esterno ha ben poca importanza identificandosi solo attraverso il riflesso di uno specchietto retrovisore o uno sguardo distratto fuori dal finestrino. Ad amplificare ancora di più l'intimità inaspettata di questa situazione è la completa assenza di una colonna sonora che Giorgelli sostituisce senza alcun problema con un insieme ben orchestrato di rumori comuni. Dal motore del camion, alle buche delle strada fino anche al gorgogliare di una bambina di cinque mesi, tutto contribuisce ad amplificare la ritmica e l'armonia naturale delle cose che caratterizza anche un "cammino" pieno di buche come la vita. E di fronte a tanta silenziosa naturalezza, il pubblico non può che osservare e lasciarsi rapire da una condizione nota non solo perché verosimile ma, soprattutto, perché spesso sperimentata in prima persona. Così, nel rumorosità naturale della quotidianità, lo spettatore diventa parte del viaggio imparando che il silenzio non è certo sinonimo di assenza di emozione.
Movieplayer.it
4.0/5