Recensione La zuppa del demonio (2014)

Davide Ferrario fa un'opera di assemblaggio, innervata e valorizzata da un grande lavoro sul montaggio, di un gran numero di documentari d'impresa realizzati in quasi un secolo di storia: il tutto per raccontare lo sviluppo industriale italiano nel '900, e l'idea di progresso ad esso sottesa.

Come affermato dallo stesso Davide Ferrario nella presentazione del suo ultimo film, La zuppa del Demonio è un'espressione che fu usata per la prima volta da Dino Buzzati, per descrivere le lavorazioni dell'altoforno. Lo scrittore italiano usò il termine nel commento a un documentario industriale del 1964, Il pianeta d'acciaio: ed è proprio su opere come quella commentata da Buzzati che si basa il nuovo lavoro di Ferrario, che vuole descrivere cento anni di storia italiana attraverso l'evoluzione industriale, ma soprattutto l'idea di progresso ad essa sottesa. L'espressione di Buzzati rivela (probabilmente senza che lo scrittore, quando l'ha coniata, ne fosse consapevole) tutta l'ambivalenza, il sovrapporsi di valutazioni e sentimenti contrastanti, che oggi guidano lo sguardo dello storico attraverso questi cento anni, e che percorrono tutto il documentario di Ferrario.

La fuoriuscita del nostro paese da un'economia a prevalenza agricola, e il suo proiettarsi nell'industria, è stata infatti insieme nutrimento e veleno: è stata il benessere di larghi strati della popolazione e la distruzione del patrimonio ambientale, è stata idea e visione di futuro e disfacimento dei legami comunitari, è stata la splendida utopia (industriale e umana) della famiglia Olivetti e la rapacità della Fiat. È stata l'Ilva di Taranto, che ha dato da mangiare per decenni a un intero territorio, e contemporaneamente ha sparso su di esso i suoi veleni. Figlio del boom degli anni '60, e quindi del periodo in cui quell'idea di progresso raggiungeva il suo massimo potenziale, il regista vuole catturare col suo film queste contraddizioni, "fondanti" per ciò che oggi è il nostro paese.

L'impresa del cinema

La Zuppa del Demonio: Fiat, pressa Hamilton, 1934 al Lingotto di Torino
La Zuppa del Demonio: Fiat, pressa Hamilton, 1934 al Lingotto di Torino

Autore che conosce bene i registri del documentario, e che li ha usati spesso e volentieri per raccontare la storia italiana, Ferrario fa uso qui, in chiave espressiva, di un'opera di assemblaggio: La zuppa del Demonio, infatti, altro non è che il montaggio delle immagini di un gran numero di documentari industriali, realizzati dalle più importanti aziende italiane, lungo circa settant'anni di storia. La disamina del regista sceglie infatti di concentrarsi sul periodo che va dai primi anni del secolo (che non a caso vedranno l'affermazione, contemporanea, delle prime realtà industriali nostrane e del cinema, forma d'arte per eccellenza legata all'industria) a quegli anni '70 che mostreranno tutti i limiti, sia strutturali che legati alla specifica realtà italiana, di un'idea di progresso illimitato raggiunto tramite la tecnica. Ferrario ha tratto il suo materiale dallo sconfinato "pozzo" dell'Archivio Nazionale del Cinema d'Impresa di Ivrea: una sorta di Cineteca parallela a quelle ufficiali, che tuttavia è in grado di dire molto, con le sue immagini, tanto sull'evoluzione della società italiana quanto su quella del gusto cinematografico, e del modo stesso di fare cinema. Tali lavori, in parte realizzati da alcuni dei più importanti registi nostrani (tra questi, Dino Risi, Ermanno Olmi e Mario Camerini) vengono qui assemblati e contrappuntati dai commenti di autori come Pier Paolo Pasolini, Vladimir Majakovskij, Giorgio Bocca, Italo Calvino; il tutto a comporre un affresco che ha nella varietà del materiale, e insieme nella sua compattezza, la sua principale fonte di fascino.

La Zuppa del Demonio: la pubblicità della Moplen del 1966 in una scena del documentario
La Zuppa del Demonio: la pubblicità della Moplen del 1966 in una scena del documentario

Il montaggio al potere

Il pregio fondamentale de La zuppa del Demonio, ciò che lo rende molto più di un mero album di fotografie cinematografico, è infatti il grande e consapevole lavoro che Ferrario fa sul suo materiale: il regista non si limita a un'operazione da archivista, ma affida al contrario al montaggio tutta la forza espressiva della sua opera. Ferrario taglia, accosta, scompone e giustappone le immagini che ha a disposizione, con un'operazione di straordinaria modernità; operazione che si completa con un intelligente uso del commento sonoro e delle didascalie dei già citati autori, che illustrano (a volte in modo provocatorio) le immagini, evitando sempre la ridondanza.

La Zuppa del Demonio: Iran 1959, uomini su una piattaforma petrolifera dell'Eni
La Zuppa del Demonio: Iran 1959, uomini su una piattaforma petrolifera dell'Eni

L'uso del montaggio mostra chiaramente l'idea che il regista ha del documentario, erede di quello sperimentale, in cui il ritmo delle immagini ha un'importanza non minore che nel cinema di finzione: tale ritmo, qui, riflette pienamente la spericolata ebbrezza, ai limiti dell'incoscienza, che ha accompagnato i decenni che il regista racconta, la titanica impresa di trasformazione di un paese e le insanabili contraddizioni che essa ha portato con sé. L'ambivalenza a cui si accennava in apertura, ambivalenza di sentimenti prima che di risultati (e di valutazioni razionali) verso i conseguimenti raccontati dal film, pervade tutta l'opera: il regista è diviso tra la nostalgia per un'epoca irripetibile, che traspare dal modo in cui presenta le sue immagini, e la consapevolezza che la sua utopia si è poi trasformata, per molti versi, in un incubo. Una scissione che coglie anche lo spettatore, e che rappresenta il cuore pulsante, problematico e per questo infinitamente stimolante, dell'intera opera.

Conclusioni

Non si può non plaudire al lavoro di Ferrario, che dimostra di perseguire una precisa idea di cinema (e di racconto) tanto nei suoi film di finzione quanto nei documentari. Qui, il fascino inesauribile delle immagini d'archivio, testimonianza del mutamento di un intero paese, si somma al rigore e alla creatività con cui queste vengono assemblate e "rese vive" nel presente. Immagini che, così presentate, non cessano di comunicare, anche e soprattutto allo spettatore d'oggi.

Movieplayer.it

4.0/5