Il ritorno alla regia di Franco Maresco, presentato nella sezione Orizzonti della Mostra del Cinema di Venezia, rappresenta indubbiamente un evento. Un evento che forse i più considereranno "di nicchia", ma che non lo è per chi davvero ha a cuore il cinema italiano, la sua vitalità, il suo legame con una realtà che spesso (e nel film è evidente) diventa digeribile, e assimilabile, solo se raccontata attraverso l'occhio di una macchina da presa. Belluscone. Una storia siciliana è un film importante, che al Lido precede l'altra opera dal tema analogo destinata a far discutere, ovvero La trattativa di Sabina Guzzanti. Non è un caso, forse, che i due film siano finiti entrambi in sezioni non competitive. Ma vediamo di andare con ordine.
Il documentario, attraverso la voce dell'amico del regista Tatti Sanguineti, racconta i tentativi sempre frustrati di Maresco di realizzare il "suo" film su Silvio Berlusconi e la Sicilia: un'opera che avrebbe dovuto esplorare il radicamento del leader di Forza Italia in alcuni dei quartieri popolari di Palermo, i suoi storici legami con personalità legate alla mafia, l'attecchire inarrestabile dell'humus culturale rappresentato dal berlusconismo, e la sua sovrapponibilità con la cultura mafiosa di cui tali ambienti sono imbevuti.
A tal fine, il regista si è fatto guidare dall'impresario di cantanti neomelodici, e organizzatore di feste di piazza, Ciccio Mira, berlusconiano convinto e nostalgico della mafia di un tempo; insieme a Mira, scopriamo la scena neomelodica palermitana, in particolar modo i due cantanti Erik e Vittorio Ricciardi, autori della "hit" locale Vorrei conoscere Berlusconi. Sanguineti ricostruisce, e dà una forma, al materiale raccolto da Maresco, offrendo una fotografia impietosa di una terra, e di una nazione, che appare irrimediabilmente condannata.
Tra cronaca e meta-cinema
Se si vuole ragionare su Belluscone. Una storia siciliana, non si può che partire dalla sua forma: l'indagine di Maresco e Sanguineti è resa in forma meta-cinematografica, come racconto di un film che (nella sua veste originaria) non è mai stato realizzato; e che si è trasformato, strada facendo, in qualcos'altro. Maresco, impietoso cronista di una realtà che supera la fantasia, ma anche grande sperimentatore di linguaggi, riesce a volgere a suo vantaggio le vicissitudini del suo progetto: il racconto di una terra contaminata da un veleno mortale (nato ben prima di Berlusconi, e destinato a sopravvivergli a lungo) si mescola alla rappresentazione autoironica di un artista che, nel momento in cui rivendica la sua intransigenza e la sua indisponibilità a scendere a compromessi, ne sorride amaramente.
Nella costruzione filmica di Maresco, nelle sue scelte di montaggio e nelle modalità di presentazione delle sue immagini, ci sono tutte le peculiarità dei mondi che il regista vuole mettere in scena: il mondo analogico, fermo a quegli anni '90 in cui il Cavaliere fece la sua "discesa in campo", delle feste di piazza e dei cantanti neomelodici, di quel sottoproletariato dei quartieri popolari che ha visto in un certo (e già "vecchio") modello di successo l'unica possibilità di sopravvivenza; e poi c'è il mondo in bianco e nero, popolato da fantasmi del passato, meschino ma grottescamente simpatico, di quel Ciccio Mira che è nostalgico di una mafia (e di una Sicilia, e di un'Italia) ormai irrimediabilmente superati. In mezzo, Maresco e Sanguineti, cronisti disperati e impotenti, ma non per questo disposti ad abdicare al loro ruolo.
Sorridere dell'orrore
Nella cronaca del "fallimento" (virgolette d'obbligo) del progetto di Maresco, e nella sua presa di coscienza dell'impossibilità di incidere su una realtà malata, c'è il resoconto del fallimento di un'intera nazione; e specie di quella cultura di centrosinistra che non ha saputo, in più di un ventennio, opporre allo scempio i necessari anticorpi. L'apparizione, verso la fine del film, dell'attuale presidente del Consiglio Matteo Renzi (non ne sveliamo il contesto) è in questo senso uno schiaffo in faccia a tutta quell'area; schiaffo forse privo di effetti immediati, ma comunque salutare. Più in generale, Belluscone usa l'arma del grottesco, della caricatura, dell'accumulazione di frasi, dichiarazioni, atteggiamenti che normalmente farebbero rabbrividire, come antidoto allo stesso horror vacui rappresentato; si sorride, a tratti si ride, ma lo si fa per non urlare o piangere. Nelle mezze parole di un Ciccio Mira che rifiuta di ammettere di aver organizzato un concerto in onore di un boss arrestato, nella riottosità di politici e gente comune a pronunciare la parola "mafia", nel bisogno di precisazioni di un cantante che tiene a spiegare che no, lui non ha mai rifiutato di fare una dedica a un mafioso in carcere, c'è l'impietosa fotografia di un intero popolo. Gli esempi potrebbero andare avanti a lungo; lasciamo allo spettatore il "piacere" di scoprirli. Attraverso il consapevole uso del grottesco, il film ci rende più sostenibile ciò che mai, in condizioni normali, lo sarebbe; ma non per questo evita di sbattercelo davanti agli occhi senza tanti complimenti, con una potenza forse ancora maggiore.
Conclusioni
Belluscone. Una storia siciliana, tra le poche visioni realmente indispensabili dell'attuale Mostra, è un'opera da vedere e ripensare a lungo; da godere nella sua immediatezza ed inventiva, e da rielaborare poi, per cogliere appieno la portata di ciò che dice (e di come lo fa). Il cinema italiano che ci racconta meglio, nel 2014, è proprio questo: cinema di outsider, fuori dai circuiti grandi circuiti produttivo/distributivi, ma anche dagli steccati e dai più banali (e desueti) tentativi di classificazione.
Movieplayer.it
4.0/5